MELANIA E IL GIOCO DELLE MAREE
25 Marzo 2005, costa
indiana di Zanzibar, villaggio di pescatori, ore 9 del mattino.
Credo
che Melania non avesse mai visto da vicino il fenomeno delle maree. Di certo
non lo sospettava. Di fronte ai suoi occhi, e ai miei, si stendeva una distesa abbagliante.
Qualche chilometro di sabbia e coralli e un mare lontano come una striscia
cobalto stesa sotto l’orizzonte.
-Ma
il mare dov’è, perché ci siamo fermati qui?
-Cara
signora, il mare si è ritirato durante la notte.
-Durante
la notte, ma che assurdità è questa!
-Creda
a me. Anche se sono più italiano di lei dirigo i villaggi turistici in queste
zone da anni. Si chiama marea, è un fenomeno legato alle fasi lunari. Il mare
si è ritirato o se preferisce l’isola si è sollevata!
Dopo aver sentenziato così il Direttore del
Karibu, il villaggio vacanza dove ero arrivato con il compito di sorvegliare la
salute dei turisti italiani, si nascose dietro la sua aria da sornione dando
disposizioni per organizzare la giornata fra le capanne dei pescatori. Ma la
donna non rinunciò alle sue proteste.
Già e adesso a mia figlia Melania chi glielo
dice che non può fare il bagno! Ci mancavano
anche le maree adesso. Questa vacanza si è trasformata in un vero bluff!
Possiamo accompagnarvi con una gip –
insistette il Direttore - i pescatori di
queste parti le usano spesso per
raggiungere la barriera corallina. Vedrà con quanta velocità il mare ci verrà
incontro fra qualche ora! Se volete fare il bagno, con una gip tutto è più
semplice. Loro conoscono la consistenza della sabbia e fin dove possono
spingersi.
Melania era un incanto. Una di quelle bambole
dai capelli biondi come la paglia e gli occhi celesti come carta da zucchero.
Mi guardò con due gote impertinenti, abbozzò un sorriso e si mise a correre di qua e di là. La madre ci svelò
che aveva compiuto da poco quattro anni e intanto continuava a chiamarla:
Melania dove vai? Non ti allontanare! Un bimbo del villaggio locale non la
mollava un attimo. Come attratti da una forza invisibile uno al fianco
dell’altro sgambettavano liberi senza méta e ridevano; lei bianca quasi latte,
lui nero come le more dei boschi.
-Penso
sia meglio proteggere Melania con una crema solare, - consigliai alla madre- e magari con un bel cappellino.
Non mi rispose; però la vidi rovistare nella
borsa e tirar fuori il tubetto della crema. Io feci finta di niente e chiesi al
Direttore se c’era nei dintorni qualcosa che assomigliasse ad un ambulatorio
dove medicare i turisti in caso di bisogno. Lui si mise a ridere e indicò la
mia borsa.
-Caro
dottore il suo ambulatorio è tutto lì dentro. Comunque ha ragione, dia qua!
Troveremo uno spicchio di ombra per non far cuocere le sue medicine!
L’ombra cui si riferiva era sotto un grande ombrello
di paglia. Ce ne erano diversi nella zona e facevano anche da tetto alle
capanne di fango dei pescatori. Poggiai la borsa su una sedia di plastica e
prima che si formasse il solito capannello di ragazzi curiosi lui si rivolse a
una donna di colore in una lingua che non avevo mai sentito.
-E’
lingua swahili, - spiegò poi quando vide la mia espressione. Ho detto a questa
mamma che lei è il dottore, qui ci sono medicine e nessuno deve toccare la
borsa. A sud del Kilimangiaro si parla più swahili che inglese.
-
Karibu!, mi fece lei mostrando dei denti bianchi come la neve.
-
Karibu! Risposi, intuendo fosse una specie di saluto.
Alcuni turisti si erano incamminati verso il
mare. Con gli zaini sulle spalle e i cappelli di paglia proiettavano ombre
piccole e timide sulla sabbia come se nessuno si sentisse tanto entusiasta di raggiungere questo mare turchese
che i 'depliant' d’agenzia avevano
promesso. Mi ritrovai di nuovo al fianco il Direttore ansioso di spiegare il
fenomeno.
- Le maree sono una caratteristica di queste
zone, sa!, soprattutto dal lato dell’isola che si affaccia sull’oceano indiano.
Vede quel barcone arenato in mezzo ai coralli?
-Sembra
il relitto della nave di Capitan uncino!, - risposi ironico.
-Beh,
all'ora di pranzo la vedrà galleggiare sulle onde. E anche noi ci
sposteremo di qui perché l'acqua
raggiungerà quegli scogli laggiù.
Vidi la scogliera e poi fissai ancora la
barca. Se ne stava chinata su un fianco arenata in mezzo ai coralli grigi e
mostrava il fasciame inaridito dalla salsedine e dal sole.
Pensai a come sarebbe potuta essere la mia
vita lì in quel villaggio se non avessi avuto in tasca il biglietto di ritorno
verso la mia Europa. Nelle città italiane le cose sembrano non dover cambiare
mai. Un paesaggio alle nostre latitudini è per sempre e qui invece cambia in
poche ore. Ti sembra di non possedere nulla qui. Il gioco delle maree spinge le
lingue d'acqua veloci, impercettibili; non le vedi ma sono intorno, presto ti
raggiungeranno da ogni dove, in silenzio, come se volessero entrare dentro te. Basterà
il tempo di fermarsi a ragionare con il barista in un inglese indecente di guerrieri
Masai vestiti con i loro mantelli rossi e quando di nuovo guarderai verso il
mare, lui ti avrà raggiunto.
Chiesi se c'era un presidio ospedaliero
nell'isola. Il Direttore sorrise di nuovo ma poi si mise a raccontare le
avventure di un medico, un uomo tenace che tutti amavano come un semidio. Appresi
che era rimasto fra questa gente a far da missionario, quasi trent’anni. Tutti
lo chiamavano ospedale ma in realtà era un ambulatorio senza troppe pretese;
una specie di presidio di primo intervento organizzato per aiutare gli abitanti
dell’isola. E quando c’era da ricoverare qualcuno in un ospedale vero, lui
stesso lo accompagnava fino all’aereo-porto. Stone Town - Mombasa per lo più. Tornava dopo qualche settimana quando era
certo che le cure avevano strappato alla morte il malcapitato. Da qualche tempo
però se ne era andato in silenzio, così come era venuto, e non era rimasto
niente di ciò che aveva costruito, tranne il ricordo.
-Lo
amano ancora come se dovesse tornare da uno dei suoi viaggi. Non lo
dimenticheranno mai! – disse infine indicando le donne e i bambini agli usci
delle capanne. Notai un ombra di ammirazione colorargli il viso piegando le
rughe intorno alla bocca. Un’ammirazione
difficile da conquistare.
Un urlo mi riportò al presente. Vidi una turista
correre via dall’acqua; aveva bolle da ustione sul polso e lunghe strie rosa
affioravano sulla pelle come tatuaggi appena impressi. La feci sedere
all’ombra, tirai fuori dalla borsa una crema e la medicai dispensando un po’ di
consigli, poi sfidai io le meduse andando
incontro alle lingue di mare. L’acqua mi circondò le caviglie. Era acqua calda come
se uscisse da uno scaldabagno. Con occhi attenti perlustrai i metri d’intorno
alla ricerca di quelle palle gelatinose e trasparenti piene di tentacoli ma alla
fine il desiderio vinse la paura e come un eroe di Salgari voltai le spalle al pericolo e mi immersi
nell’oceano indiano.
Il pranzo fu ricco di colesterolo. Non
ricordo di aver mai ingoiato tanta aragosta dopo quel giorno. Dolce, sugosa,
odorosa di mare, incontaminata, innocente, con le chele ancora serrate e la
pancia candida coperta da un guscio color rosa carminio come le gote delle
fanciulle dipinte dai pittori dell’ottocento napoletano. Tutti ridevano e
brindavano e cantavano mentre il mare si avvicinava. La siesta ci sorprese con un
ombra morbida, quasi discreta; mi feci cullare dalla brezza fissando il cielo
con i piedi inerpicati sulla corda di una amaca sotto due alberi di palma.
Sarei potuto rimanere a lungo così; ore, settimane, forse mesi, o magari anni,
intorpidito dal vinello bevuto, quasi nascosto in una nuvola di niente ove i
doveri si dissolvano strato dopo strato, senza perché.
Melania mi riportò al presente. La sua
scomparsa insieme al fidanzatino di colore fu come un mare di angoscia che invase tutti.
La madre mi guardava stupita, in silenzio. Gli occhi solo urlavano.
Furono
controllate le capanne, ad una ad una; alcuni si spinsero a cercarli con la gip
su quel che restava della spiaggia verso
sud, per tutto il tratto di bagnasciuga non ancora coperto dall’acqua. Alla
fine fu deciso di cercare direttamente in mare. Il Direttore spiegò in swahili ad
alcuni pescatori
che
bisognava tirare in acqua le barche e perlustrare la zona fino alla barriera corallina
prima che il tramonto rendesse ogni
ricerca inutile.
Somministrai
alla madre di Melania un sedativo e vegliai il suo sopore controllando la
frequenza del cuore e la pressione. Mentre ero intento ad asciugarle il sudore
dalle tempie una donna osservava in
piedi sull’uscio della capanna, immobile. Riconobbi su quel viso l’espressione
del piccolo moretto. La raggiunsi, le toccai le mani ma lei si ritrasse; corse
verso la sua capanna, prese per le spalle altre due bimbe e un ragazzetto più
grandicello e li spinse in casa quasi a proteggerli da me e dalle mie medicine.
Le barche sotto vele triangolari galleggiavano a qualche
decina di metri dalla scogliera. Il mare aveva ingoiato anche gli ultimi angoli
di sabbia rimasti e la luce che era stata così abbagliante al mattino si fece più
tenue, seminascosta dietro nuvolaglie velate all’orizzonte. Quando poi giunse il tramonto un vento lieve
portò a riva il suono di tamburi suonati lontano; una specie di nenia che riempì
l’aria come fanno i canti propiziatori al calar del sole quando l’ombra si fa
padrona ed è più facile percepire il respiro nascosto nelle cose.
Fu quel canto a ridarmi il profumo
dell’infanzia. Ricordi, impalpabili, in cui l’ansia per Melania mi sembrò
quella provata all’uscita di scuola, un giorno di quarant’anni fa, quando la campanella
aveva suonato la fine delle lezioni e il bambino che ero con il grembiule
azzurro e il fiocco sfatto cercava disperato il quaderno perso fra i banchi,
proprio quello con i compiti dettati dalla maestra. Percepii di nuovo l’odore
della pioggia d’ottobre mentre tornavo a casa presagendo il rimprovero di mio padre
e il sapore secco del gesso dietro la lavagna al mattino seguente. Quando sei
escluso, ovunque tu sia e in ogni età, la vita intorno prende a danzare; va e
viene come una marea inesorabile mentre tu resisti aggrappato a qualcosa di
conosciuto, sempre uguale, acre e insipido come un capriccio.
In quel preciso istante, la gola mi si contrasse
in un singhiozzo e il vento mi condusse il richiamo di Melania. Un lamento
lontano confuso nel suono della risacca. D’istinto guardai la nave di capitan
uncino, quella specie di veliero della
fantasia corroso dalla salsedine.
Poteva essere solo lì con il suo fidanzatino,
lì, nel regno dei balocchi, fuori dal mondo degli adulti. Urlai qualcosa al
Direttore, poi vidi le barche convergere verso il veliero abbandonato che dondolava
sulle onde come un clown aggrappato a una corda. Riportarono a riva i due
naufraghi e tutti si congratularono per il mio istinto, tutti si misero a darmi
pacche sulle spalle; persino la madre del moretto ora mi osservava con uno sguardo
meno severo.
La madre di Melania mi abbracciò piangendo ma
Melania mi sorrise, proprio come aveva fatto al mattino, con le ciglia ancora più
lunghe e impertinenti come se fosse
felice di appartenere nuovamente alla marea.
Enrico Coluccia
Grande Doc Bravo come sempre!!!!!!!
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