lunedì 11 febbraio 2013

Dalla racolta: " Lezioni di Antropologia."

FINALMENTE UN: ‘ELOGIO DELLA GEOMETRIA’

   Raccolgo e propongo queste poche pagine intitolate ‘Elogio della geometria’. Sembrano appunti per una lezione di estetica. Mi hanno colpito e quindi le ho fatte subito mie. Purtroppo il testo è danneggiato proprio lì dove si potrebbe leggere la data e la firma dell’autore. I fogli però sono leggibili; probabilmente usciti da una macchina da scrivere del tipo Olivetti in voga fino agli anni ’70. Ci ho pensato prima di proporle anche senza il nome dell’autore. Poi mi son detto: che importanza ha chi le ha scritte e quando. Alcune intuizioni sono così potenti che appartengono a chiunque le sappia cogliere, indipendentemente da chi le ha formulate per primo.  Ecco dunque il testo:
ELOGIO DELLA GEOMETRIA.
  Egregi signori, non ci sono eccezioni all’antico detto che recita: ‘Mai dire mai’. Credetemi: tutto avrei immaginato di fare fuor che  arrivare a tessere un giorno, qui davanti a tante persone, l’elogio della geometria. Proprio io che mi sono sempre considerato amante dell’arte e della poesia! Riuscite voi a immaginare una qualche relazione fra queste materie e la fredda analisi necessaria per venire a capo di un teorema di Euclide o  una formula di Eulero? E quand’anche ciò fosse possibile, che cioè, pur non essendo dotati di intuito per numeri e diagrammi, si riesca a cogliere la logica di un problema di geometria e a risolverlo, quale uomo di cultura potrebbe mai credere che la geometria sia davvero la madre di tutte le scienze? E’ certamente un' affermazione opinabile, per molti di voi. Al massimo sarete disposti, io credo, a dar merito alla geometria di aver avuto un antico legame con la filosofia, questa sì  madre di tutte le scienze. Il fatto è, signori, che la filosofia di per sé non è una scienza; (Dio mio!, sento mormorii in sala). Beh biasimatemi se volete, ma io la considero così: un enorme contenitore. Ci va dentro tutto il sapere; come una amante (philos in greco significa amare) essa si ciba di qualsiasi cosa la mente abbia sete o fame. E’ così che nell’antica Grecia la filosofia ha vestito i panni della matematica, nell’antica Roma della morale, nel Medio Evo della ‘teologia’, nel ‘400 dell’’anatomia’, della ‘fisica’, dell’’astronomia’, nel ‘700 si è fatta chiamare ‘ragione’, e dal ‘900 in poi la si ritrova ovunque, in estetica, e quindi in architettura, in psicologia e quindi in medicina e poi in politica, economia, e perfino biologia, e arte, letteratura, musica, poesia. Un vestito, per l’appunto. Dentro c’è di tutto e c’è la mente, soprattutto. Il termine ‘sophus’,  sapienza, piace molto alla mente, le dona una patina di nobiltà. La mente è saggia, osserva, analizza, cerca il comune denominatore, vuole la regola o legge che metta ordine nel caos dell’esperienza quotidiana, rivelandoci la chiave con cui è possibile riportare il particolare al generale. Senza la mente che decodifica l’esperienza saremmo degli animali impauriti che non sanno difendersi da ciò che non conoscono.
  Ed allora, se la filosofia è lo studio di ciò che riguarda la psicologia, la biologia, l’estetica, l’economia e via dicendo che senso ha affermare che essa è la madre di tutte le scienze? Essa è tutte le scienze, dato che ogni scienza è amore e acquisizione per un determinato sapere. Una madre, se partorisce dei figli, mantiene comunque la sua identità, non è ‘i figli’.  La geometria invece può essere una madre, perché lascia il segno di sé in ogni ambito e, nonostante ciò, mantiene la propria identità. Vediamo come.
  Intanto faccio due affermazioni: il pensiero umano è vincolato alla percezione visiva e la geometria è la scienza della forma.
  Consideriamo il primo assunto: il pensiero è visivo. Platone chiamava il contenuto di un concetto con il suo vero nome: idea. Il termine greco ‘eidos’, da cui deriva la parola idea, ha un’antica radice verbale ‘eid-‘ con la quale i contemporanei di Platone nel IV secolo avanti Cristo formavano il participio passato del verbo ‘orao’ che significa vedere. ‘Ho visto’, cioè ho una immagine mentale della cosa e posso quindi formarmene un concetto che non ha niente a che fare con il nome che do alla cosa né con l’importanza che essa riveste o con le sue qualità. L’idea ha a che fare con la forma di una cosa. Non è la cosa reale nel mondo oggettivo, che continuerebbe ad esistere anche se non ci fossimo noi a osservarla, ma è la cosa stessa nel suo apparire. Se pensiamo a un oggetto questo avviene perché i nostri occhi lo hanno già visto e quindi la nostra mente lo conserva in sé come forma. La retina percepisce, il cervello ricorda. Dice Platone: le cose muoiono, le idee delle cose sono immortali. Attenzione, però. Le idee non sono barattoli con l’etichetta stipati su una mensola e pronti a essere presi quando è necessario. Una forma immagazzinata nella mente ne richiama altre per associazione e di questo processo continuo, di questo continuo rincorrersi e concatenarsi di idee si nutre il pensiero. La nascita dei grandi teoremi, delle intuizioni più profonde, in qualsiasi ambito scientifico, si avvale sempre della esperienza visiva interna.
  Vedere ci dà il vantaggio di disporre all’istante di uno spazio intorno a noi e lo spazio a sua volta è il medium naturale dentro al quale si muove il pensiero. E’ arduo formarsi un’esperienza del mondo solo usando tatto, olfatto, e udito. Prendete ad esempio un ceco dalla nascita che non ha mai visto oggetti, né persone. Per vivere egli è costretto a ricreare continuamente l’ambiente che lo circonda perché non ne ha percezione e non lo può quindi immaginare. L’unica dimensione che conosce è il tempo e la sua vita è un continuo concentrarsi su sequenze temporali: il numero dei passi, l’intensità dei rumori, i rintocchi di un pendolo.  Le cose, le persone intorno, vanno e vengono, saltano fuori dal nulla e scompaiono nel nulla, non esistendo  in lui l’idea stessa di un ambito che le contenga. In queste condizioni la mente utilizza le proprie risorse più per adattarsi che per creare. L’immediatezza di uno spazio visibile invece giova tantissimo al pensiero creativo. E poiché è immerso nello spazio, il pensiero creativo fa subito una cosa: disegna forme.
  Siamo al secondo assunto che è poi il tanto atteso tema della nostra chiacchierata: la geometria. Essa entra in gioco  perché è la scienza della forma. Più precisamente la geometria studia la forma e la misura degli oggetti nonché le relazioni matematiche esistenti fra questi parametri. Ritengo la geometria indispensabile al processo creativo perché la visualizzazione delle forme e il loro relazionarsi nello spazio danno al pensiero infinite possibilità di sviluppo e al contempo lo vincolano alla coerenza della relazione matematica. Mi si obbietterà: e il linguaggio? Non è forse il linguaggio la più alta modalità di astrazione del pensiero. La risposta è certamente affermativa ma, come mi accingo a dimostrare, ciò non fa che dare valore alla nostra causa. Fu uno psicologo dello sviluppo, (in sostanza un filosofo), di nome Jean Piaget ad affermare che lo sviluppo cognitivo dell’essere umano attraversa tre fasi: quella dell’azione, quella della costruzione di immagini e quella del linguaggio. Quest’ultima è la fase della elaborazione di simboli, appunto il gradino più alto che possa raggiungere la capacità di astrazione del pensiero. Riprendendo l’esempio dei barattoli, per la formazione di un’idea è necessaria l’azione, che sarebbe l’atto percettivo cioè il riempimento del barattolo, poi la rappresentazione mentale di questa percezione che corrisponderebbe alla sistemazione del barattolo sulla mensola, e infine l’ultimo livello di astrazione, simbolica, costituita dal linguaggio cioè dalla applicazione sul barattolo di una etichetta identificativa. Come si vede le tre fasi sono correlate fra loro al punto tale che non ha senso prenderle singolarmente. Il linguaggio ha per contenuto l’idea e l’idea a sua volta non esiste senza un atto percettivo: vedere. La capacità della mente di elaborare simboli, cioè costruire un  linguaggio, aumenta indubbiamente le sue potenzialità, soprattutto nella fase di comunicazione dell’idea, ma non aumenta il livello qualitativo dell’idea stessa.
  Insomma signori, è questo che son venuto a dirvi, non ci è possibile pensare se non in termini visivi. Quando elabora una teoria la nostra mente oscilla continuamente; prima crea immagini, poi li traduce in simboli cioè in linguaggio, ma è sempre nella fase di creazione di immagini che la teoria nasce. Alcuni esempi saranno in grado di confortare questa convinzione. Scelgo il medico che ha  inventato la psicanalisi, come dire un filosofo: Sigmund Freud. Il corpo centrale della sua teoria prevede la costituzione di due triadi: da una parte Es, Io e Super-io, dall’altra Inconscio, Preconscio e Conscio. Vi ho portato una diapositiva perché possiate osservare l’immagine che traduce in un istante quaranta pagine di appunti:

Il disegno di Freud era stilizzato e non aveva certo colori ma le relazioni spaziali e le proporzioni fra le diverse aree raffiguranti i componenti delle due triadi sono esattamente questi. L’immagine del sole e dell’Iceberg sulla linea di galleggiamento rende in modo perfetto i rapporti fra la zona di consapevolezza e il graduale passaggio nell’area del sub-cosciente e dell’inconscio; mentre lo spaccato dell’intero Iceberg ci spiega in quali rapporti di grandezza sono fra loro le parti costituenti del nostro mondo psicologico (Super-io, Io ed Es) e per quanta parte essi emergono a livello di coscienza.
  Generazioni di studenti conoscono le teorie di Freud solo grazie a questo disegno. Le forme traducono istantaneamente e in modo chiaro concetti di una grande complessità ma se ciò è possibile è perché essi sono stati pensati in forma figurativa e solo in un secondo momento sono stati tradotti nel simbolismo del linguaggio.
  Un altro esempio vi potrà rendere la misura di quanto è importante la geometria, scienza delle forme, in ogni campo del sapere. Tireremo in causa ancora un filosofo: Pitagora. Non esiste prodotto del pensiero, si tratti di sperimentazione scientifica, di indagine di mercato, di innovazione tecnologica, di previsione statistica in qualunque ambito culturale, che non si avvalga del suo celebre teorema: ‘in un triangolo retto il quadrato costruito sull’ipotenusa è pari alla somma dei quadrati costruiti sui lati’. Come dire che se due rette si allontanano fra loro di 90° partendo da un punto in comune, la loro relazione è presente all’infinito perché in qualsiasi momento e a qualunque velocità nel tempo esse si propaghino possono essere relazionate una all’altra. Pensate, signori! Senza questa formulazione non sarebbe possibile seguire il rapporto esistente fra due sistemi relazionati secondo lo schema delle ascisse e delle ordinate. Se il pensiero ha una illuminazione riguardante un qualunque rapporto di forze,ecco!,  la geometria gli viene in aiuto. Gli fornisce tutto: visibilità, regole, controllo.
  La geometria  è per così dire, nascosta nella realtà. Solo visualizzandola la mente riesce a organizzare il proprio rapporto con la realtà stessa. Forse un ultima obbiezione mi potreste fare e sarebbe certamente la più importante. Che cosa ha a che fare la geometria con la poesia? Fino a qualche anno fa io stesso avrei risposto: niente. Oggi rispondo: tutto. Pensate a Dante che scende nel cono a imbuto rovesciato con il quale egli immaginò l’inferno. Pensate a Paolo e Francesca che escono dalla schiera dei lussuriosi e si perdono fuori dallo schema dove li costringe il loro peccato, pensate alla risalita del Poeta insieme a Virgilio lungo la ‘natural burella’ dopo aver raggiunto il centro della terra ed essersi sottratti alla forza di gravità, pensate al cono positivo rappresentato dalla montagna del Purgatorio, pensate all’immagine di Dio che come una moderna particella quantica è allo stesso tempo uno e trino. La poesia non è un aggettivo o una parola, la poesia è visualizzazione fantastica e allegorica del proprio mondo emozionale. E’ una natura ricreata secondo gli schemi geometrici delle proprie emozioni e conoscenze.
   Signori credo di avervi annoiato abbastanza; saluto e ringrazio tutti per la pazienza dimostrata.

giovedì 22 novembre 2012

A tuTTi gli amici che mi seguono....VI ASPETTO!!!   Enrico Coluccia

martedì 6 novembre 2012


MELANIA E IL GIOCO DELLE MAREE

 

25 Marzo 2005, costa indiana di Zanzibar, villaggio di pescatori, ore 9 del mattino.

Credo che Melania non avesse mai visto da vicino il fenomeno delle maree. Di certo non lo sospettava. Di fronte ai suoi occhi, e ai miei, si stendeva una distesa abbagliante. Qualche chilometro di sabbia e coralli e un mare lontano come una striscia cobalto stesa sotto l’orizzonte.

-Ma il mare dov’è, perché ci siamo fermati qui?

-Cara signora, il mare si è ritirato durante la notte.

-Durante la notte, ma che assurdità è questa!

-Creda a me. Anche se sono più italiano di lei dirigo i villaggi turistici in queste zone da anni. Si chiama marea, è un fenomeno legato alle fasi lunari. Il mare si è ritirato o se preferisce l’isola si è sollevata!

  Dopo aver sentenziato così il Direttore del Karibu, il villaggio vacanza dove ero arrivato con il compito di sorvegliare la salute dei turisti italiani, si nascose dietro la sua aria da sornione dando disposizioni per organizzare la giornata fra le capanne dei pescatori. Ma la donna non rinunciò alle sue proteste.

   Già e adesso a mia figlia Melania chi glielo dice che non può fare il bagno! Ci     mancavano anche le maree adesso. Questa vacanza si è trasformata in un vero bluff!

  Possiamo accompagnarvi con una gip – insistette il Direttore -  i pescatori di queste parti le usano spesso  per raggiungere la barriera corallina. Vedrà con quanta velocità il mare ci verrà incontro fra qualche ora! Se volete fare il bagno, con una gip tutto è più semplice. Loro conoscono la consistenza della sabbia e fin dove possono spingersi.

  Melania era un incanto. Una di quelle bambole dai capelli biondi come la paglia e gli occhi celesti come carta da zucchero. Mi guardò con due gote impertinenti, abbozzò un sorriso e si mise  a correre di qua e di là. La madre ci svelò che aveva compiuto da poco quattro anni e intanto continuava a chiamarla: Melania dove vai? Non ti allontanare! Un bimbo del villaggio locale non la mollava un attimo. Come attratti da una forza invisibile uno al fianco dell’altro sgambettavano liberi senza méta e ridevano; lei bianca quasi latte, lui nero come le more dei boschi.

-Penso sia meglio proteggere Melania con una crema solare, - consigliai alla madre-  e magari con un bel cappellino.

  Non mi rispose; però la vidi rovistare nella borsa e tirar fuori il tubetto della crema. Io feci finta di niente e chiesi al Direttore se c’era nei dintorni qualcosa che assomigliasse ad un ambulatorio dove medicare i turisti in caso di bisogno. Lui si mise a ridere e indicò la mia borsa.

-Caro dottore il suo ambulatorio è tutto lì dentro. Comunque ha ragione, dia qua! Troveremo uno spicchio di ombra per non far cuocere le sue medicine!

  L’ombra cui si riferiva era sotto un grande ombrello di paglia. Ce ne erano diversi nella zona e facevano anche da tetto alle capanne di fango dei pescatori. Poggiai la borsa su una sedia di plastica e prima che si formasse il solito capannello di ragazzi curiosi lui si rivolse a una donna di colore in una lingua che non avevo mai sentito.

-E’ lingua swahili, - spiegò poi quando vide la mia espressione. Ho detto a questa mamma che lei è il dottore, qui ci sono medicine e nessuno deve toccare la borsa. A sud del Kilimangiaro si parla più swahili che inglese.

- Karibu!, mi fece lei mostrando dei denti bianchi come la neve.

- Karibu! Risposi, intuendo fosse una specie di saluto.

  Alcuni turisti si erano incamminati verso il mare. Con gli zaini sulle spalle e i cappelli di paglia proiettavano ombre piccole e timide sulla sabbia come se nessuno si sentisse tanto  entusiasta di raggiungere questo mare turchese che i 'depliant' d’agenzia  avevano promesso. Mi ritrovai di nuovo al fianco il Direttore ansioso di spiegare il fenomeno.

 

Le maree sono una caratteristica di queste zone, sa!, soprattutto dal lato dell’isola che si affaccia sull’oceano indiano. Vede quel barcone arenato in mezzo ai coralli?

-Sembra il relitto della nave di Capitan uncino!, - risposi ironico.

-Beh, all'ora di pranzo la vedrà galleggiare sulle onde. E anche noi ci sposteremo  di qui perché l'acqua raggiungerà  quegli scogli laggiù.     

  Vidi la scogliera e poi fissai ancora la barca. Se ne stava chinata su un fianco arenata in mezzo ai coralli grigi e mostrava il fasciame inaridito dalla salsedine e dal sole.

  Pensai a come sarebbe potuta essere la mia vita lì in quel villaggio se non avessi avuto in tasca il biglietto di ritorno verso la mia Europa. Nelle città italiane le cose sembrano non dover cambiare mai. Un paesaggio alle nostre latitudini è per sempre e qui invece cambia in poche ore. Ti sembra di non possedere nulla qui. Il gioco delle maree spinge le lingue d'acqua veloci, impercettibili; non le vedi ma sono intorno, presto ti raggiungeranno da ogni dove, in silenzio, come se volessero entrare dentro te. Basterà il tempo di fermarsi a ragionare con il barista in un inglese indecente di guerrieri Masai vestiti con i loro mantelli rossi e quando di nuovo guarderai verso il mare, lui ti avrà raggiunto.  

  Chiesi se c'era un presidio ospedaliero nell'isola. Il Direttore sorrise di nuovo ma poi si mise a raccontare le avventure di un medico, un uomo tenace che tutti amavano come un semidio. Appresi che era rimasto fra questa gente a far da missionario, quasi trent’anni. Tutti lo chiamavano ospedale ma in realtà era un ambulatorio senza troppe pretese; una specie di presidio di primo intervento organizzato per aiutare gli abitanti dell’isola. E quando c’era da ricoverare qualcuno in un ospedale vero, lui stesso lo accompagnava fino all’aereo-porto. Stone Town - Mombasa per lo più.  Tornava dopo qualche settimana quando era certo che le cure avevano strappato alla morte il malcapitato. Da qualche tempo però se ne era andato in silenzio, così come era venuto, e non era rimasto niente di ciò che aveva costruito, tranne  il ricordo.

-Lo amano ancora come se dovesse tornare da uno dei suoi viaggi. Non lo dimenticheranno mai! – disse infine indicando le donne e i bambini agli usci delle capanne. Notai un ombra di ammirazione colorargli il viso piegando le rughe intorno alla bocca.  Un’ammirazione difficile da conquistare.

  Un urlo mi riportò al presente. Vidi una turista correre via dall’acqua; aveva bolle da ustione sul polso e lunghe strie rosa affioravano sulla pelle come tatuaggi appena impressi. La feci sedere all’ombra, tirai fuori dalla borsa una crema e la medicai dispensando un po’ di consigli, poi sfidai io le meduse  andando incontro alle lingue di mare. L’acqua mi circondò le caviglie. Era acqua calda come se uscisse da uno scaldabagno. Con occhi attenti perlustrai i metri d’intorno alla ricerca di quelle palle gelatinose e trasparenti piene di tentacoli ma alla fine il desiderio vinse la paura e come un eroe di Salgari  voltai le spalle al pericolo e mi immersi nell’oceano indiano.

  Il pranzo fu ricco di colesterolo. Non ricordo di aver mai ingoiato tanta aragosta dopo quel giorno. Dolce, sugosa, odorosa di mare, incontaminata, innocente, con le chele ancora serrate e la pancia candida coperta da un guscio color rosa carminio come le gote delle fanciulle dipinte dai pittori dell’ottocento napoletano. Tutti ridevano e brindavano e cantavano mentre il mare si avvicinava. La siesta ci sorprese con un ombra morbida, quasi discreta; mi feci cullare dalla brezza fissando il cielo con i piedi inerpicati sulla corda di una amaca sotto due alberi di palma. Sarei potuto rimanere a lungo così; ore, settimane, forse mesi, o magari anni, intorpidito dal vinello bevuto, quasi nascosto in una nuvola di niente ove i doveri si dissolvano strato dopo strato, senza perché.

  Melania mi riportò al presente. La sua scomparsa insieme al fidanzatino di colore  fu come un mare di angoscia che invase tutti. La madre mi guardava stupita, in silenzio. Gli occhi solo urlavano.

Furono controllate le capanne, ad una ad una; alcuni si spinsero a cercarli con la gip su quel che restava della spiaggia verso  sud, per tutto il tratto di bagnasciuga non ancora coperto dall’acqua. Alla fine fu deciso di cercare direttamente in mare. Il Direttore spiegò in swahili ad alcuni pescatori


che bisognava tirare in acqua le barche e perlustrare la zona fino alla barriera corallina prima che il tramonto rendesse ogni  ricerca inutile.

  Somministrai alla madre di Melania un sedativo e vegliai il suo sopore controllando la frequenza del cuore e la pressione. Mentre ero intento ad asciugarle il sudore dalle tempie una  donna osservava in piedi sull’uscio della capanna, immobile. Riconobbi su quel viso l’espressione del piccolo moretto. La raggiunsi, le toccai le mani ma lei si ritrasse; corse verso la sua capanna, prese per le spalle altre due bimbe e un ragazzetto più grandicello e li spinse in casa quasi a proteggerli da me e dalle mie medicine.

  Le barche  sotto vele triangolari galleggiavano a qualche decina di metri dalla scogliera. Il mare aveva ingoiato anche gli ultimi angoli di sabbia rimasti e la luce che era stata così abbagliante al mattino si fece più tenue, seminascosta dietro nuvolaglie velate all’orizzonte.  Quando poi giunse il tramonto un vento lieve portò a riva il suono di tamburi suonati lontano; una specie di nenia che riempì l’aria come fanno i canti propiziatori al calar del sole quando l’ombra si fa padrona ed è più facile percepire il respiro nascosto nelle cose.

  Fu quel canto a ridarmi il profumo dell’infanzia. Ricordi,  impalpabili, in cui l’ansia per Melania mi sembrò quella provata all’uscita di scuola, un giorno di quarant’anni fa, quando la campanella aveva suonato la fine delle lezioni e il bambino che ero con il grembiule azzurro e il fiocco sfatto cercava disperato il quaderno perso fra i banchi, proprio quello con i compiti dettati dalla maestra. Percepii di nuovo l’odore della pioggia d’ottobre mentre tornavo a casa presagendo il rimprovero di mio padre e il sapore secco del gesso dietro la lavagna al mattino seguente. Quando sei escluso, ovunque tu sia e in ogni età, la vita intorno prende a danzare; va e viene come una marea inesorabile mentre tu resisti aggrappato a qualcosa di conosciuto, sempre uguale, acre e insipido come un capriccio. 

  In quel preciso istante, la gola mi si contrasse in un singhiozzo e il vento mi condusse il richiamo di Melania. Un lamento lontano confuso nel suono della risacca. D’istinto guardai la nave di capitan uncino, quella specie di veliero  della fantasia corroso dalla salsedine.

  Poteva essere solo lì con il suo fidanzatino, lì, nel regno dei balocchi, fuori dal mondo degli adulti. Urlai qualcosa al Direttore, poi vidi le barche convergere verso il veliero abbandonato che dondolava sulle onde come un clown aggrappato a una corda. Riportarono a riva i due naufraghi e tutti si congratularono per il mio istinto, tutti si misero a darmi pacche sulle spalle; persino la madre del moretto ora mi osservava con uno sguardo meno severo.

  La madre di Melania mi abbracciò piangendo ma Melania mi sorrise, proprio come aveva fatto al mattino, con le ciglia ancora più lunghe e impertinenti come se  fosse felice di appartenere nuovamente alla marea.

Italia, 06/11/2012 

Enrico Coluccia

 

 

mercoledì 3 ottobre 2012

A tutti gli amici che mi seguono
comunico che in data 26/ottobre/2012 alle ore 18  presso la libreria Mondolibri in via Melo da Bari avrà luogo la presentazione del mio romanzo "I quattreo volti dell'amore".
Vi aspetto.

                                                                                                     Enrico Coluccia

sabato 8 settembre 2012

La zattera. (Da Appunti di viaggio.)


 Dalla raccolta ‘Appunti di ‘viaggio’ per Zibaldone 2000

 

La zattera

 

  Qualche anno fa ho esaudito il desiderio di tutti coloro che vanno a Parigi per la prima volta: ci sono ritornato. Ovviamente in compagnia di una donna. Parigi e le donne sono come poli magnetici di segno opposto: si attraggono. Roma potrà anche essere una buona complice del fascino femminile, potrà ‘non fare la stupida’, regalarti atmosfere col ‘frisceco de luna’ ma Parigi è l’abito naturale di qualunque donna. Ce la puoi portare per la prima volta, che  sia amante, sorella, o figlia, poco importa. Non appena scende dall’aereo con gli occhi si gira intorno e sembra dire: questo è il mio ambiente naturale, qui io sono nata. Ti può far fare ciò che vuole. Non le serve chiedere. L’ambiente senza parole ti fa prendere e donare tutto quel che puoi come se fossimo sotto un albero nel giardino dell’Eden e bastasse raccogliere una mela per renderla felice.

  E’ una città da incanto Parigi. Anni addietro quando ci sono arrivato per la prima volta ho creduto che la si potesse visitare come qualsiasi altra città. Mi sono immerso di sera nei vicoli del quartiere latino, fra le strade intorno al Pantheon, mi sono seduto ai tavolini negli angoli dei boulevard, ho passeggiato sotto gli alberi nei giardini dei Campi Elisi, ho percorso e ripercorso infinite volte il metrò dalla zona di Chàtelet e Les Halles fino al centro; l’ho spiata, da tutte le angolazioni possibili: dalle scalinate di Mont Martre, dal battello in navigazione sotto i ponti sulla senna, persino dalla cima della torre Eiffel di sera quando sembra un cielo steso sotto i tuoi occhi e le sue luci brillano come stelle di mondi lontani, inarrivabili.  Mi ha affascinato ma non c’è stato un istante in cui abbia avuto la sensazione di averne carpito il segreto. Per questo ti reimbarchi sul volo di ritorno col desiderio struggente di tornarci. E se lo fai, se ci torni e non cambi strategia, il processo si ripete inesorabile. La gente del luogo ti guarda diffidente e continui ad aggirarti per le strade come uno straniero.

  Ma allora, cosa spiega il fascino di questa città? Non c’è risposta ovviamente. Il fascino non ha nulla di razionale. Da quanti l’hanno conosciuta e amata ci viene forse un solo consiglio: vivetela con atteggiamento da uomini, e non da maschi. Non la si può ‘possedere’. Esattamente come accade per una donna di valore. Il maschio può credere di possedere una donna con la forza del proprio corpo; ma un uomo sa che nessuna donna può essere conquistata, né posseduta; al massimo ci si può vivere accanto per del tempo, anche una vita, condividendo un letto, dei figli, pensieri, progetti, ma senza pretendere che sia completamente tua né di averla compresa appieno, mai. Il maschio invece quando possiede urla, agisce, cerca, crede di trovare, di vedere, di capire, e se non si accontenta sbrana la propria preda, la smonta pezzo dopo pezzo come fanno i bambini con i giocattoli alla ricerca del congegno misterioso  che spieghi il suo fascino. E un giocattolo rotto non ha più alcun fascino.

  Per Parigi è un po’ la stessa cosa. Se potessimo racchiuderla in una metafora potremmo pensare a lei come a una città femminile e invece a Roma come a una città maschile. Non sono i dialetti e nemmeno i monumenti che hanno sesso, sono le atmosfere. Roma è un tuffo in un tempo lontano, un tempo che ormai non ci appartiene; un tempo che puoi solo immaginare, ricostruire, studiare. Parigi è il tuo mondo, è il mondo dell’uomo moderno, con la sua interiorità, con il sentimento di un proprio sé ineludibile che ti fa appartenere a te stesso e a nient’altro.

  Parigi è moderna, Roma è rimasta antica e nessun quartiere moderno è riuscito mai a farne a pieno una città dei giorni nostri. Sembra che i resti dei monumenti di cui è piena in ogni angolo siano offesi, feriti quasi dalla nostra presenza. Le auto sfrecciano tra quelle rovine con violenza inaudita. Puoi illuminare il Colosseo con giochi di luce, addobbarlo per le cerimonie e ancor più sembrerà lo spettro di un mondo perduto, per sempre. Fateci caso quando vi capita di passeggiare, ad esempio, per via dei fori imperiali.  Appoggiatevi alla ringhiera, guardate giù e fate volare la fantasia.  Fra i resti di quelle colonne, magari proprio lì dove i secoli hanno fatto crescere erba e terra e asfalto si aggiravano più di duemila anni fa gli uomini della civis. Uomini affatto diversi da noi. Non è un caso che in latino le parole città e civiltà abbiano la stessa radice. Per i romani civis e civitas erano la stessa cosa.

La città [di Roma] non è soltanto un regime politico, la città è una cultura … [Qui] la dimensione morale dell’uomo è indivisibile dalla sua dimensione politica; egli non può realizzarsi interamente che all’interno e per mezzo delle istituzioni civiliRoma ignora l’interiorità psicologica e l’esame di coscienza; l’uomo romano non è che esteriorità e non possiede altro specchio che i suoi simili per vedersi nell’onore o..nell’indegnità. (1)

  E’ lontano da noi questo mondo e il suo fascino è proprio in questa diversità. Ciò che appare diverso se non ci fa paura ci fa innamorare e se ti innamori di Roma inizi a desiderarla con avidità maschile. Vuoi saper tutto della sua storia e ti aggiri per le sue strade come farebbe un archeologo in erba che studia le vestigia di genti antiche e scatta foto, legge epigrafi in latino, compra libri, scruta mappe, immagina cose, abitudini, scene sepolte dal tempo. Facciamo questo con avidità  come se i secoli trascorsi fra le nostre strade e quei monumenti non fossero mai esistiti, come se  la chiesa non se ne fosse mai impadronita e da capitale dell’impero non ne avesse fatto la capitale della cristianità. Tutti sappiamo che la chiesa ha cancellato questo mondo per sempre, ha sostituito la civitas con la pietas, i templi con le cattedrali, e ha insinuato per secoli nelle coscienze italiane il timore che vivere fuori dalla pietas cristiana significhi vivere nell’indegnità.

  Parigi è altra cosa.  Parigi è un utero per l’uomo moderno. Vicina al nostro modo di sentire la vita. E’ noi stessi per come siamo oggi, anche se non abbiamo più le parrucche dei tempi di Robespierre, anche se non crediamo più che un re possa avere un potere divino, anche se non geliamo al freddo di una soffitta da bohemien. Parigi, il sapore dolciastro dei bistrot, gli sguardi lontani e crucciati dei passanti, le copertine sbiadite di vecchi libri sulle bancarelle lungo la senna! E’ la nostra era, l’era dell’uomo cosmopolita, universi di pensieri, speranze, silenzi che si aggirano frenetici. Non puoi comprendere il tempo in cui vivi se non comprendi te stesso. Se non senti di essere a casa, se non ne sei orgoglioso, se non capisci che quella lì non è più la terra di Vercingetorige, ma la patria di  Sartre, di Baudelaire, di Camus.

  Non è importante essere italiano o francese; non è la lingua che ti svela il segreto di quei luoghi e se cammini con gli occhi sgranati per catturare luci e immagini, lei, Parigi, continuerà a sfuggirti perché il suo segreto è dentro te. L’ho compreso un pomeriggio di due anni fa nelle sale del Louvre. Il primo intento era di raggiungere la Gioconda. Dovevo farmi largo in un oceano di teste fra gente che si attardava innanzi alla balaustra con l’unico scopo di scattare foto ricordo: qualcosa da portare agli amici per far vedere che sei arrivato a pochi metri dal quadro più famoso al mondo! Impresa ardua osservare le trasparenze del paesaggio le velature luminose  che hanno reso famoso l’incarnato di monna Lisa e il suo sorriso impalpabile; la gente divora i luoghi dove sono custoditi i silenzi dei geni.  Ho rinunciato, scientemente. Mi sono aggirato per altre sale; ho visto Tiziano, David, Delacroix finché fra le tele dell’ottocento nella sala 77, quasi vuota, ho incontrato il segreto che cercavo. Il senso di Parigi, il mistero dell’uomo moderno mi si è parato innanzi all’improvviso.

  Si tratta di un quadro largo poco più di sette metri e alto quasi cinque; si chiama ‘La zattera della Medusa’ ed è stato dipinto da un pittore romantico dal nome tipicamente francese: Théodore Gericault. Lo conoscevo per averlo studiato in una delle tante pubblicazioni d’arte accumulate in questi anni.  Ma di certo non esiste riproduzione che possa anche solo in parte trasferire l’emozione di trovarselo di fronte; forte, maestoso, drammatico e al contempo pieno di vita e speranza.

  La zattera è l’equivalente delle scialuppe di salvataggio così care alla cinematografia dopo il naufragio più famoso dell’era moderna: quello del Titanic. La Medusa era appunto una specie di Titanic ‘ante litteram’, una fregata francese che il 2 Luglio del 1816, cioè l’anno successivo all’uscita dalla scena europea di Napoleone, si incagliò su un banco di sabbia a largo delle coste della Mauritania. Successe per lo stesso motivo per cui il Titanic fracassò il proprio scafo su un iceberg nel Nord dell’Atlantico: la velocità. Allora come un secolo dopo tutti gli elementi della tragedia si ripresentarono uguali; interessi economici, incompetenza, negligenza, odio di classe, sfortuna , scandalo. E Gericault come un sapiente regista raccolse indizi, interrogò testimoni, prese appunti, elaborò schizzi preparatori, fece sopralluoghi fino a spingersi a sfidare i venti della Manica solo per studiare il moto delle onde. Il risultato fu un capolavoro; non un’opera cinematografica ma ‘La zattera’, un modo rivoluzionario di intendere la pittura in relazione allo spirito del mondo a lui contemporaneo. La grandezza naturale dei corpi; la loro nudità; la scelta sapiente dell’inquadratura quasi che l’autore stesso fosse lì con una telecamera seduto in mezzo alle onde a riprendere la scena; il contrasto fra gesti di abbandono e di terrore, di speranza e di rassegnazione segnano con questi 35 metri quadri di superficie pittorica il culmine dell’ introspezione moderna nell’arte figurativa. C’è persino la didascalia, come in un film muto ai primi del ‘900. E’ scritta su una targhetta della cornice: l’unico eroe in questa toccante storia è l’umanità.

  I resoconti dell’epoca raccontano di un naufragio drammatico. Storie di disperazione, fame, cannibalismo persino. I critici si affannarono a vedere nel quadro e nei suoi schizzi preparatori le stesse scene che la fantasia apocalittica dei cronisti aveva creato. Ma osserviamo il quadro (fig.1). 

 

                                                                                                       Fig 1
Le figure ricordano quelle che Michelangelo dipinse nel Giudizio Universale della Cappella Sistina e che pure Gericault vide  e commentò. Sono corpi seminudi quelli di Gericault, sono anime ignude  quelle di Michelangelo. Mettetele a confronto osservando anche le immagini di coloro che sono in attesa del giudizio( fig.2 ). 

 

 
                                                                                                                                               Fig 2
  I corpi dipinti da Michelangelo sono nudi perché non sono più corpi, sono anime davanti al giudizio di Dio. Tutto ruota intorno al Cristo che solleva il braccio nella parte alta della scena. In quel braccio è il giudizio: gli sguardi e i gesti di queste anime  sembrano tutte dipendere da lui. Nessuna agisce veramente. E non c’è azione perché non c’è più un vero spazio né un tempo, non c’è azione perché tutte le azioni sono state compiute e nulla dipende più da costoro. Simulacri sono piuttosto che corpi, anime dalle quali è evaporata via la vita terrena insieme al suo libero arbitrio; immagini di uomini e donne senza più identità; semplici emanazioni del loro stesso passato. E se le osservi non ti commuovi; puoi restare  incantato dalla maestosità della scena, abbagliato dalla luce, puoi ammirare la perfezione delle anatomie, puoi farti persino intimorire da un dubbio sottile, come se davvero in un futuro fuori dal tempo, fuori da come tu stesso concepisci il tempo, tutto questo possa avverarsi e la tua anima possa davvero attendere un giudizio divino appollaiata su una nuvola; ma niente di ciò che osservi in silenzio nella cappella Sistina ti emoziona davvero perché niente ti appartiene.

  E invece sulla zattera ci sei, con il cuore. Sei dentro uno spazio che le dimensioni del quadro e il potente scorcio prospettico ti fanno sembrare reale, come se fossi trascinato dentro la scena. Questi corpi non sono simulacri, sono corpi veri; non sono spogliati della loro vita terrena; sono solo uomini innanzi alla morte. E le azioni hanno una logica perché sono molto più che azioni, sono istinti, emozioni, pensieri immortalati nell’istante in cui  non conta più niente altro che  sopravvivere.

  Solo in basso a sinistra un tizio con i capelli e la barba grigia sembra l’immagine della rassegnazione. Il corpo del giovane che trattiene con il braccio destro perché non scivoli via nei flutti è forse il corpo del figlio. Di certo è così perché solo un dolore simile può vincere l’istinto di sopravvivenza. Appena dietro lui invece la composizione si anima con una tensione estrema. Le braccia e le bisettrici degli sguardi e i corpi arrampicati uno sull’altro disegnano  nello spazio una piramide sorretta dalla speranza. Lo straccio rosso è sventolato per farsi individuare da una imbarcazione che qualcuno ha visto lontano, oltre le onde, dove c’è la salvezza.

  E' sempre così: il contatto improvviso con la morte dà valore alla vita. Quando ti ritrovi  nei pochi metri quadri di una zattera, e il futuro non è più scontato e la paura si fa terrore l’uomo vero emerge, e l’uomo può essere un eroe o una bestia. Puoi trovare di tutto su una zattera. Chi è capace di strappare a brandelli le carni di un compagno per non morire di fame, oppure, il che è lo stesso, chi sgomita davanti alle imbarcazioni di salvataggio sui ponti delle nostre navi da crociera che affondano camminando su donne e bambini pur di assicurarsi un posto sulla scialuppa. Puoi trovare chi perde tutto ciò per cui si batteva e non gli importa morire o.. chi torna in cabina per salvare i propri gioielli; chi si lascia morire paralizzato dalla paura e chi si sacrifica per salvare uno sconosciuto. La zattera è lo spazio dell’anima. E’ il simbolo di tutto ciò che si trova al confine estremo di ciascuno di noi. Sei nudo lì, sei in uno spazio virtuale, ben oltre la normalità, dove eroismo o abiezione, amore o odio, razza, credo, tradizioni, ricchezza, potere, calcolo sembrano parole senza  senso. La zattera è insieme inferno e paradiso e se credi di esserti spinto sino di fronte a Dio non è perché sei in un luogo d’arte ma perché in un attimo, grazie a quell’arte, sei rimasto solo di fronte a te stesso. 

  Poi esci ovviamente; dalle stanze del Louvre, dalla piramide di cristallo; ti incammini per i giardini delle Tuileries; ti siedi su una panchina di fronte a una fontana con un gelato in mano. Sollevi gli occhi e osservi le nuvole coprire il cielo della mattina.  Settembre è così a Parigi. Giungeranno le quattro o forse anche le cinque del pomeriggio prima che venga giù il solito acquazzone continentale.

                                                                  

 

                                                                                                             Enrico Coluccia

venerdì 17 agosto 2012

"Per sempre". Dalla raccolta 'appunti di viaggio'.

Bari, 15 /08/2012
  Cari amici, il Trentino è una terra incantevole! Avevo il desiderio di tornarci dopo quasi trentacinque anni e l’ho trovata come la ricordavo, come se lei.. mi avesse aspettato. E come allora, ai miei vent’anni, ho avuto la sensazione che in quei luoghi la natura abbia perdonato l’uomo per il suo insediamento. Noi italiani siamo gente davvero strana! Amiamo le bellezze degli altri e snobbiamo le nostre. L’anno scorso ho avuto modo di visitare i decantati giardini di Gaudì alle porte di Barcellona; quest’anno ho passeggiato sulle rive del fiume che attraversa Merano. Mi sono inoltrato nei giardini dedicati alla memoria della principessa Sissi. Se non lo avete mai fatto, fatelo. Se volete visitare i giardini di Gaudì fate anche questo, per carità!, ma poi andate a Merano: è un trionfo di colori, odori, suoni, luccichii. Non vi è niente di costruito, niente di artificiale, compresa la bimba che si arrampica tenace sulle gambe della principessa di pietra all’ingresso e aspetta in posa la foto della madre mentre con gli occhi sembra dire: io sono la principessa vera. Ho camminato a lungo in quell’incanto con l’idea bislacca che qualunque cosa avessi desiderato lì avrebbe trovato l’energia per avverarsi, da sola. Mi sono seduto sulle panchine di legno nella via del belvedere; su ognuna sono intagliate a lama di coltello delle frasi. Non i soliti murales apocalittici che imbrattano i muri delle nostre città né quelle frasi piene di cuori infrecciati del tipo “ Antonio ama Laura per sempre”. No! Erano frasi di poeti celebri che scritte apposta lì, in mezzo a tanta bellezza, colmavano l’animo molto più in fretta che dal fondo di una pagina di libro sfogliato distrattamente in libreria in attesa che il caldo di questa città assurda si stemperi nella sera. Ho letto una frase di Alda Merini e ne sono rimasto incantato:
   Quando si ha in noi il ricordo del passato e l’ansia del futuro, Cristo, la morte beve da noi l’eterno!
  Non poteva che essere una donna; dette dalle donne le verità luccicano come diamanti. Attenzione però, queste parole vanno intese nel loro senso più profondo. A restare in superficie si rischia di cadere in interpretazioni banali; qualcosa del tipo.. bisogna vivere il presente, il qui e ora, lasciare il passato alle spalle.. il futuro ancora non c’è, vivi l’oggi, e simili amenità. Ve li ricordate no? quei pendoli a obelisco di moda negli anni ’60 con l’ammonizione sul quadrante, ‘Tempus fugit’, ovvero “Il tempo fugge” e quindi, sottinteso, cogli l’attimo fuggente. I nostri genitori lo citavano come simbolo della caducità delle cose, come se lo scorrere del tempo rendesse il nostro passato qualcosa di indegno e morto.  Come se il passato non fosse tutto ciò che siamo e come se il futuro non avesse già di per sé l’insana abitudine di  presentarsi ogni giorno pieno di dubbi e paure!
  Come può un essere umano liberarsi del passato? Semplice: non può, e non deve! Il passato è memoria; solo la memoria dà senso, dà forza, dà coraggio per affrontare le vicende del quotidiano. Non bisogna confondere il ricordo con la memoria. Non sono la stessa cosa. La memoria è un passato purificato, un passato che ci ha già reso migliori, consapevoli della propria interiorità, delle proprie radici, della propria reattività al mondo e ogni giorno che passa la arricchisce facendone un tesoro di esperienza.
 Interiorità è memoria (..) è rivisitazione e riappropriazione orgogliosa del tempo trascorso, nondimeno di quello sprecato, sbagliato, sofferto. (1)
  Ed invece il ricordo è rimuginare, subire il passato per non subire il presente come fa Francesca, nel V canto dell’Inferno, quando racconta a Dante gli attimi più importanti della sua vita.
                       ..  Nessun maggior dolore  che ricordarsi del tempo felice nella miseria..
E’ facile rimuginare; è un po’ come sbattere la porta in faccia al mondo e rinchiudersi in uno spazio atemporale, dove tutto è già accaduto e dove puoi solo raccontare. E raccontando esperisci emozioni negative: magari rimpianto, o rabbia, oppure orgoglio, presunzione. Eccola la prima porta attraverso la quale la morte beve la nostra eternità.
  La seconda è l’ansia del futuro. Poiché la vita è un continuo moto, un continuo cambiare, un’alternanza di stagioni e di incontri; un  rinnovarsi di desideri e passioni, un’insalata di dolori e piaceri, di disillusioni e nuove speranze ecco che vaghiamo in cerca di certezze e non trovandole (perché non sappiamo guardare in noi stessi, e alcuni neanche sospettano che ci sia qualcosa da guardare in noi stessi) nel migliore dei casi ci mettiamo di fronte al futuro con la carrucola piena di cemento e costruiamo qualche diga ideale contro questo flusso caotico. Un esempio? Che ne dite di invenzioni come: ‘le forme cambiano ma la sostanza resta’. Se fosse vero basterebbe conoscere la sostanza di quel che ci accade (un paio di decadi, magari tre) e tutto sarebbe sempre sotto controllo, come una routine qualunque! Purtroppo la sostanza non esiste senza forma. E’ come se un naufrago fosse trascinato da un fiume in piena e dicesse: in fondo questa è solo acqua. L’avete mai saggiata la forza dell’acqua? Non ha forma e al contempo ha tutte le forme possibili e dentro sé è piena di vortici, correnti, rigurgiti; l’acqua rimbalza, precipita, ingoia. Nessuna diga improvvisata potrebbe reggerne l’urto.
  E quando sentono l’ansia del futuro crescere alcuni la ingannano con un espediente ingegnoso. Poiché di dighe (leggi convinzioni) ne hanno viste crollare parecchie e si sentono ormai degli esperti in materia, tirano fuori il coniglio dal cilindro e si mettono a cavalcare l’onda. Una specie di equilibrio perenne, sempre alla superficie delle cose. Mentre le cose, ovvero le vicende delle loro esistenze scorrono, loro se ne restano in disparte a osservare. E se neanche questo basta, se nonostante ciò l’ansia torna a fare capolino, l’importante diviene..
.. occupare la mente con esigenze pratiche, utili a qualcun altro e a se stessi, affannate sino alla distruzione di ogni sintomo di autocoscienza disinteressata(…) perché il tempo soli con se stessi fa paura; angoscia e tortura la più parte di questa specie esteriore.(..) Non comprendono che questo tempo non va riempito, va fatto maturare attingendo a se stessi, alla propria memoria.(..) Chi fugge [dalla propria interiorità] si svuota, non fa altro che ingozzarsi di presente. (1)
  Questo moto continuo, però, questo continuo “ingozzarsi di presenteha un prezzo. E anche restare in equilibrio sull’onda ce l’ha. Per liberarsi dal giogo e vivacchiare un po’ tranquilla c’è un altro espediente che la mente sa attuare; è un giochetto sagace chiamato: “per sempre”. Il cuore è ingenuo, fa presto a convincersi. Non può che essere così, per sempre: pur di ingannare l’ansia di quel che mi riserva il futuro io oggi ho bisogno di credere che ti amerò per sempre, che un figlio è per sempre, che una ricchezza sarà mia per sempre, che il mio lavoro di ogni giorno sarà per sempre. Persino quando non abbiamo nulla altro che paura e rancore la mente fa credere al cuore che questo momento sarà per sempre.
  Tutti, re e imperatori, uomini per lo più ritenuti saggi, in alcuni casi ispirati dagli dei o da Dio in persona, hanno governato i propri domini come se fosse per sempre. E mai nessuno è riuscito a sopravvivere all’idea che il suo potere un giorno non sarebbe stato più. Basti pensare a Napoleone nell’esilio di S.Elena o a Carlo V, l’uomo sul cui impero non tramontava mai il sole, che quando abdicò e si rinchiuse a Yuste in un monastero arroccato sui  monti dell’Estremadura nel cuore della Spagna, non sopravvisse che poco tempo alla propria fine.
  Potremmo voler credere che la fama delle gesta compiute o delle battaglie vinte da costoro abbia permesso loro di guadagnarsi l’eternità ingannando la morte. E per quanto ancora?, per il tempo che può durare la nostra civiltà o la vita stessa sulla terra? Quando il sole sarà una gigante rossa, e fra un tempo inimmaginabile di miliardi di anni avrà inghiottito Mercurio, Venere e Terra, che cosa resterà della fama dei nostri condottieri o dei nostri uomini illustri o degli uomini illustri e dei condottieri di altre civiltà che si succederanno sulla terra? In verità già adesso a Carlo V o a Cesare o a Napoleone non può fregare più niente, stesi nelle loro tombe monumentali, che i nostri ragazzi siano costretti a studiarne le gesta sui libri di scuola. Non era quella l’eternità che cercavano. E se mai l’hanno sognata così si illudevano perché non esiste una eternità dopo la morte. L’eternità ha senso solo quando si è in vita, giacché gli attimi di vita presente, quando si ha ancora la forza di amare e combattere per qualcosa, sono l’unico modo che l’eternità ha per esistere.
  La vita stessa è eternità, il che non vuol dire che durerà per sempre, vuol dire che contiene in se stessa tutto il tempo possibile e tutto l’amore possibile e tutta la gioia, tutta la forza, tutta la redenzione possibile; e l’uomo ne è il custode. Sta a lui esserne o meno consapevole. Il regno del per sempre invece è un regno infernale. Per convincervene tornate a leggere il V Canto dell’Inferno, voi che oggi siete professionisti o uomini di cultura.
  Francesca racconta a Dante di essersi protratta a leggere con il suo amante Paolo il libro che narra la storia di Lancillotto del Lago che si innamorò della principessa Ginevra moglie di Artù. E’ questo il libro Galeotto che scatena la passione fra Paolo e Francesca. Il bacio fra i due amanti è proprio l’attimo in cui le loro vite si spezzano per mano del marito offeso, Gianciotto Malatesta. Dante che ascolta questa storia, sopraffatto dalla commozione, sviene.
Mentre che l’uno spirto questo disse,
l’altro piangea, sì che di pietade
io venni men così com’io morisse;
e caddi come corpo morto cade.  
  Si sono chiesti a lungo i commentatori e penso un po’ tutti noi studenti di un tempo, come fosse possibile che un uomo come Dante avvezzo alle più dure lotte politiche fosse sopraffatto a tal punto dalla commozione per le lacrime di un amante da svenire. Natalino Sapegno, indimenticato commentatore della Divina Commedia (2) spiega che la pietade è la tristezza che nasceva dal contemplare quella infelicità senza scampo. E’ vero: Dante sviene perché il pianto di Paolo è un pianto per sempre. Un dolore senza consolazione è un dolore fuori dalla vita perché la vita è cambiamento ed è anche consapevolezza del cambiamento; il che significa speranza. E in quello spazio del cuore dove c’è speranza la morte non ha ancora bevuto del tutto da noi eternità.   
 
                       
                                                         Enrico  Coluccia