
giovedì 22 novembre 2012
martedì 6 novembre 2012
MELANIA E IL GIOCO DELLE MAREE
25 Marzo 2005, costa
indiana di Zanzibar, villaggio di pescatori, ore 9 del mattino.
Credo
che Melania non avesse mai visto da vicino il fenomeno delle maree. Di certo
non lo sospettava. Di fronte ai suoi occhi, e ai miei, si stendeva una distesa abbagliante.
Qualche chilometro di sabbia e coralli e un mare lontano come una striscia
cobalto stesa sotto l’orizzonte.
-Ma
il mare dov’è, perché ci siamo fermati qui?
-Cara
signora, il mare si è ritirato durante la notte.
-Durante
la notte, ma che assurdità è questa!
-Creda
a me. Anche se sono più italiano di lei dirigo i villaggi turistici in queste
zone da anni. Si chiama marea, è un fenomeno legato alle fasi lunari. Il mare
si è ritirato o se preferisce l’isola si è sollevata!
Dopo aver sentenziato così il Direttore del
Karibu, il villaggio vacanza dove ero arrivato con il compito di sorvegliare la
salute dei turisti italiani, si nascose dietro la sua aria da sornione dando
disposizioni per organizzare la giornata fra le capanne dei pescatori. Ma la
donna non rinunciò alle sue proteste.
Già e adesso a mia figlia Melania chi glielo
dice che non può fare il bagno! Ci mancavano
anche le maree adesso. Questa vacanza si è trasformata in un vero bluff!
Possiamo accompagnarvi con una gip –
insistette il Direttore - i pescatori di
queste parti le usano spesso per
raggiungere la barriera corallina. Vedrà con quanta velocità il mare ci verrà
incontro fra qualche ora! Se volete fare il bagno, con una gip tutto è più
semplice. Loro conoscono la consistenza della sabbia e fin dove possono
spingersi.
Melania era un incanto. Una di quelle bambole
dai capelli biondi come la paglia e gli occhi celesti come carta da zucchero.
Mi guardò con due gote impertinenti, abbozzò un sorriso e si mise a correre di qua e di là. La madre ci svelò
che aveva compiuto da poco quattro anni e intanto continuava a chiamarla:
Melania dove vai? Non ti allontanare! Un bimbo del villaggio locale non la
mollava un attimo. Come attratti da una forza invisibile uno al fianco
dell’altro sgambettavano liberi senza méta e ridevano; lei bianca quasi latte,
lui nero come le more dei boschi.
-Penso
sia meglio proteggere Melania con una crema solare, - consigliai alla madre- e magari con un bel cappellino.
Non mi rispose; però la vidi rovistare nella
borsa e tirar fuori il tubetto della crema. Io feci finta di niente e chiesi al
Direttore se c’era nei dintorni qualcosa che assomigliasse ad un ambulatorio
dove medicare i turisti in caso di bisogno. Lui si mise a ridere e indicò la
mia borsa.
-Caro
dottore il suo ambulatorio è tutto lì dentro. Comunque ha ragione, dia qua!
Troveremo uno spicchio di ombra per non far cuocere le sue medicine!
L’ombra cui si riferiva era sotto un grande ombrello
di paglia. Ce ne erano diversi nella zona e facevano anche da tetto alle
capanne di fango dei pescatori. Poggiai la borsa su una sedia di plastica e
prima che si formasse il solito capannello di ragazzi curiosi lui si rivolse a
una donna di colore in una lingua che non avevo mai sentito.
-E’
lingua swahili, - spiegò poi quando vide la mia espressione. Ho detto a questa
mamma che lei è il dottore, qui ci sono medicine e nessuno deve toccare la
borsa. A sud del Kilimangiaro si parla più swahili che inglese.
-
Karibu!, mi fece lei mostrando dei denti bianchi come la neve.
-
Karibu! Risposi, intuendo fosse una specie di saluto.
Alcuni turisti si erano incamminati verso il
mare. Con gli zaini sulle spalle e i cappelli di paglia proiettavano ombre
piccole e timide sulla sabbia come se nessuno si sentisse tanto entusiasta di raggiungere questo mare turchese
che i 'depliant' d’agenzia avevano
promesso. Mi ritrovai di nuovo al fianco il Direttore ansioso di spiegare il
fenomeno.
- Le maree sono una caratteristica di queste
zone, sa!, soprattutto dal lato dell’isola che si affaccia sull’oceano indiano.
Vede quel barcone arenato in mezzo ai coralli?
-Sembra
il relitto della nave di Capitan uncino!, - risposi ironico.
-Beh,
all'ora di pranzo la vedrà galleggiare sulle onde. E anche noi ci
sposteremo di qui perché l'acqua
raggiungerà quegli scogli laggiù.
Vidi la scogliera e poi fissai ancora la
barca. Se ne stava chinata su un fianco arenata in mezzo ai coralli grigi e
mostrava il fasciame inaridito dalla salsedine e dal sole.
Pensai a come sarebbe potuta essere la mia
vita lì in quel villaggio se non avessi avuto in tasca il biglietto di ritorno
verso la mia Europa. Nelle città italiane le cose sembrano non dover cambiare
mai. Un paesaggio alle nostre latitudini è per sempre e qui invece cambia in
poche ore. Ti sembra di non possedere nulla qui. Il gioco delle maree spinge le
lingue d'acqua veloci, impercettibili; non le vedi ma sono intorno, presto ti
raggiungeranno da ogni dove, in silenzio, come se volessero entrare dentro te. Basterà
il tempo di fermarsi a ragionare con il barista in un inglese indecente di guerrieri
Masai vestiti con i loro mantelli rossi e quando di nuovo guarderai verso il
mare, lui ti avrà raggiunto.
Chiesi se c'era un presidio ospedaliero
nell'isola. Il Direttore sorrise di nuovo ma poi si mise a raccontare le
avventure di un medico, un uomo tenace che tutti amavano come un semidio. Appresi
che era rimasto fra questa gente a far da missionario, quasi trent’anni. Tutti
lo chiamavano ospedale ma in realtà era un ambulatorio senza troppe pretese;
una specie di presidio di primo intervento organizzato per aiutare gli abitanti
dell’isola. E quando c’era da ricoverare qualcuno in un ospedale vero, lui
stesso lo accompagnava fino all’aereo-porto. Stone Town - Mombasa per lo più. Tornava dopo qualche settimana quando era
certo che le cure avevano strappato alla morte il malcapitato. Da qualche tempo
però se ne era andato in silenzio, così come era venuto, e non era rimasto
niente di ciò che aveva costruito, tranne il ricordo.
-Lo
amano ancora come se dovesse tornare da uno dei suoi viaggi. Non lo
dimenticheranno mai! – disse infine indicando le donne e i bambini agli usci
delle capanne. Notai un ombra di ammirazione colorargli il viso piegando le
rughe intorno alla bocca. Un’ammirazione
difficile da conquistare.
Un urlo mi riportò al presente. Vidi una turista
correre via dall’acqua; aveva bolle da ustione sul polso e lunghe strie rosa
affioravano sulla pelle come tatuaggi appena impressi. La feci sedere
all’ombra, tirai fuori dalla borsa una crema e la medicai dispensando un po’ di
consigli, poi sfidai io le meduse andando
incontro alle lingue di mare. L’acqua mi circondò le caviglie. Era acqua calda come
se uscisse da uno scaldabagno. Con occhi attenti perlustrai i metri d’intorno
alla ricerca di quelle palle gelatinose e trasparenti piene di tentacoli ma alla
fine il desiderio vinse la paura e come un eroe di Salgari voltai le spalle al pericolo e mi immersi
nell’oceano indiano.
Il pranzo fu ricco di colesterolo. Non
ricordo di aver mai ingoiato tanta aragosta dopo quel giorno. Dolce, sugosa,
odorosa di mare, incontaminata, innocente, con le chele ancora serrate e la
pancia candida coperta da un guscio color rosa carminio come le gote delle
fanciulle dipinte dai pittori dell’ottocento napoletano. Tutti ridevano e
brindavano e cantavano mentre il mare si avvicinava. La siesta ci sorprese con un
ombra morbida, quasi discreta; mi feci cullare dalla brezza fissando il cielo
con i piedi inerpicati sulla corda di una amaca sotto due alberi di palma.
Sarei potuto rimanere a lungo così; ore, settimane, forse mesi, o magari anni,
intorpidito dal vinello bevuto, quasi nascosto in una nuvola di niente ove i
doveri si dissolvano strato dopo strato, senza perché.
Melania mi riportò al presente. La sua
scomparsa insieme al fidanzatino di colore fu come un mare di angoscia che invase tutti.
La madre mi guardava stupita, in silenzio. Gli occhi solo urlavano.
Furono
controllate le capanne, ad una ad una; alcuni si spinsero a cercarli con la gip
su quel che restava della spiaggia verso
sud, per tutto il tratto di bagnasciuga non ancora coperto dall’acqua. Alla
fine fu deciso di cercare direttamente in mare. Il Direttore spiegò in swahili ad
alcuni pescatori
che
bisognava tirare in acqua le barche e perlustrare la zona fino alla barriera corallina
prima che il tramonto rendesse ogni
ricerca inutile.
Somministrai
alla madre di Melania un sedativo e vegliai il suo sopore controllando la
frequenza del cuore e la pressione. Mentre ero intento ad asciugarle il sudore
dalle tempie una donna osservava in
piedi sull’uscio della capanna, immobile. Riconobbi su quel viso l’espressione
del piccolo moretto. La raggiunsi, le toccai le mani ma lei si ritrasse; corse
verso la sua capanna, prese per le spalle altre due bimbe e un ragazzetto più
grandicello e li spinse in casa quasi a proteggerli da me e dalle mie medicine.
Le barche sotto vele triangolari galleggiavano a qualche
decina di metri dalla scogliera. Il mare aveva ingoiato anche gli ultimi angoli
di sabbia rimasti e la luce che era stata così abbagliante al mattino si fece più
tenue, seminascosta dietro nuvolaglie velate all’orizzonte. Quando poi giunse il tramonto un vento lieve
portò a riva il suono di tamburi suonati lontano; una specie di nenia che riempì
l’aria come fanno i canti propiziatori al calar del sole quando l’ombra si fa
padrona ed è più facile percepire il respiro nascosto nelle cose.
Fu quel canto a ridarmi il profumo
dell’infanzia. Ricordi, impalpabili, in cui l’ansia per Melania mi sembrò
quella provata all’uscita di scuola, un giorno di quarant’anni fa, quando la campanella
aveva suonato la fine delle lezioni e il bambino che ero con il grembiule
azzurro e il fiocco sfatto cercava disperato il quaderno perso fra i banchi,
proprio quello con i compiti dettati dalla maestra. Percepii di nuovo l’odore
della pioggia d’ottobre mentre tornavo a casa presagendo il rimprovero di mio padre
e il sapore secco del gesso dietro la lavagna al mattino seguente. Quando sei
escluso, ovunque tu sia e in ogni età, la vita intorno prende a danzare; va e
viene come una marea inesorabile mentre tu resisti aggrappato a qualcosa di
conosciuto, sempre uguale, acre e insipido come un capriccio.
In quel preciso istante, la gola mi si contrasse
in un singhiozzo e il vento mi condusse il richiamo di Melania. Un lamento
lontano confuso nel suono della risacca. D’istinto guardai la nave di capitan
uncino, quella specie di veliero della
fantasia corroso dalla salsedine.
Poteva essere solo lì con il suo fidanzatino,
lì, nel regno dei balocchi, fuori dal mondo degli adulti. Urlai qualcosa al
Direttore, poi vidi le barche convergere verso il veliero abbandonato che dondolava
sulle onde come un clown aggrappato a una corda. Riportarono a riva i due
naufraghi e tutti si congratularono per il mio istinto, tutti si misero a darmi
pacche sulle spalle; persino la madre del moretto ora mi osservava con uno sguardo
meno severo.
La madre di Melania mi abbracciò piangendo ma
Melania mi sorrise, proprio come aveva fatto al mattino, con le ciglia ancora più
lunghe e impertinenti come se fosse
felice di appartenere nuovamente alla marea.
Enrico Coluccia
mercoledì 3 ottobre 2012
venerdì 28 settembre 2012
sabato 8 settembre 2012
La zattera. (Da Appunti di viaggio.)
Dalla raccolta ‘Appunti di ‘viaggio’ per
Zibaldone 2000
La zattera
Qualche anno fa ho esaudito il
desiderio di tutti coloro che vanno a Parigi per la prima volta: ci sono
ritornato. Ovviamente in compagnia di una donna. Parigi e le donne sono come poli
magnetici di segno opposto: si attraggono. Roma potrà anche essere una buona
complice del fascino femminile, potrà ‘non fare la stupida’, regalarti
atmosfere col ‘frisceco de luna’ ma Parigi è l’abito naturale di qualunque
donna. Ce la puoi portare per la prima volta, che sia amante, sorella, o figlia, poco importa.
Non appena scende dall’aereo con gli occhi si gira intorno e sembra dire:
questo è il mio ambiente naturale, qui io sono nata. Ti può far fare ciò che
vuole. Non le serve chiedere. L’ambiente senza parole ti fa prendere e donare
tutto quel che puoi come se fossimo sotto un albero nel giardino dell’Eden e
bastasse raccogliere una mela per renderla felice.
E’ una città da
incanto Parigi. Anni addietro quando ci sono arrivato per la prima volta ho
creduto che la si potesse visitare come qualsiasi altra città. Mi sono immerso
di sera nei vicoli del quartiere latino, fra le strade intorno al Pantheon, mi
sono seduto ai tavolini negli angoli dei boulevard, ho passeggiato sotto gli
alberi nei giardini dei Campi Elisi, ho percorso e ripercorso infinite volte il
metrò dalla zona di Chàtelet e Les Halles fino al centro; l’ho spiata, da tutte
le angolazioni possibili: dalle scalinate di Mont Martre, dal battello in
navigazione sotto i ponti sulla senna, persino dalla cima della torre Eiffel di
sera quando sembra un cielo steso sotto i tuoi occhi e le sue luci brillano
come stelle di mondi lontani, inarrivabili.
Mi ha affascinato ma non c’è stato un istante in cui abbia avuto la
sensazione di averne carpito il segreto. Per questo ti reimbarchi sul volo di
ritorno col desiderio struggente di tornarci. E se lo fai, se ci torni e non
cambi strategia, il processo si ripete inesorabile. La gente del luogo ti
guarda diffidente e continui ad aggirarti per le strade come uno straniero.
Ma allora, cosa
spiega il fascino di questa città? Non c’è risposta ovviamente. Il fascino non
ha nulla di razionale. Da quanti l’hanno conosciuta e amata ci viene forse un
solo consiglio: vivetela con atteggiamento da uomini, e non da maschi. Non la
si può ‘possedere’. Esattamente come accade per una donna di valore. Il maschio
può credere di possedere una donna con la forza del proprio corpo; ma un uomo
sa che nessuna donna può essere conquistata, né posseduta; al massimo ci si può
vivere accanto per del tempo, anche una vita, condividendo un letto, dei figli,
pensieri, progetti, ma senza pretendere che sia completamente tua né di averla
compresa appieno, mai. Il maschio invece quando possiede urla, agisce, cerca,
crede di trovare, di vedere, di capire, e se non si accontenta sbrana la
propria preda, la smonta pezzo dopo pezzo come fanno i bambini con i giocattoli
alla ricerca del congegno misterioso che
spieghi il suo fascino. E un giocattolo rotto non ha più alcun fascino.
Per Parigi è un po’
la stessa cosa. Se potessimo racchiuderla in una metafora potremmo pensare a
lei come a una città femminile e invece a Roma come a una città maschile. Non
sono i dialetti e nemmeno i monumenti che hanno sesso, sono le atmosfere. Roma
è un tuffo in un tempo lontano, un tempo che ormai non ci appartiene; un tempo
che puoi solo immaginare, ricostruire, studiare. Parigi è il tuo mondo, è il
mondo dell’uomo moderno, con la sua interiorità, con il sentimento di un
proprio sé ineludibile che ti fa appartenere a te stesso e a nient’altro.
Parigi è moderna,
Roma è rimasta antica e nessun quartiere moderno è riuscito mai a farne a pieno
una città dei giorni nostri. Sembra che i resti dei monumenti di cui è piena in
ogni angolo siano offesi, feriti quasi dalla nostra presenza. Le auto
sfrecciano tra quelle rovine con violenza inaudita. Puoi illuminare il Colosseo
con giochi di luce, addobbarlo per le cerimonie e ancor più sembrerà lo spettro
di un mondo perduto, per sempre. Fateci caso quando vi capita di passeggiare,
ad esempio, per via dei fori imperiali.
Appoggiatevi alla ringhiera, guardate giù e fate volare la
fantasia. Fra i resti di quelle colonne,
magari proprio lì dove i secoli hanno fatto crescere erba e terra e asfalto si
aggiravano più di duemila anni fa gli uomini della civis. Uomini affatto diversi da noi. Non è un caso che in latino le parole città e civiltà abbiano la
stessa radice. Per i romani civis e civitas erano la stessa cosa.
La città [di Roma] non è soltanto un regime politico, la
città è una cultura … [Qui] la dimensione morale dell’uomo è indivisibile dalla
sua dimensione politica; egli non può realizzarsi interamente che all’interno e per
mezzo delle istituzioni civili … Roma ignora
l’interiorità psicologica e l’esame di coscienza; l’uomo romano non è che
esteriorità e non possiede altro specchio che i suoi simili per vedersi
nell’onore o..nell’indegnità. (1)
E’ lontano da noi questo mondo e il suo fascino è proprio in questa
diversità. Ciò che appare diverso se non ci fa paura ci fa innamorare e se ti
innamori di Roma inizi a desiderarla con avidità maschile. Vuoi saper tutto
della sua storia e ti aggiri per le sue strade come farebbe un archeologo in
erba che studia le vestigia di genti antiche e scatta foto, legge epigrafi in
latino, compra libri, scruta mappe, immagina cose, abitudini, scene sepolte dal
tempo. Facciamo questo con avidità come
se i secoli trascorsi fra le nostre strade e quei monumenti non fossero mai
esistiti, come se la chiesa non se ne
fosse mai impadronita e da capitale dell’impero non ne avesse fatto la capitale
della cristianità. Tutti sappiamo che la chiesa ha cancellato questo mondo per
sempre, ha sostituito la civitas con
la pietas, i templi con le
cattedrali, e ha insinuato per secoli nelle coscienze italiane il timore che
vivere fuori dalla pietas cristiana significhi vivere nell’indegnità.
Parigi è altra cosa. Parigi è un
utero per l’uomo moderno. Vicina al nostro modo di sentire la vita. E’ noi
stessi per come siamo oggi, anche se non abbiamo più le parrucche dei tempi di
Robespierre, anche se non crediamo più che un re possa avere un potere divino,
anche se non geliamo al freddo di una soffitta da bohemien. Parigi, il sapore
dolciastro dei bistrot, gli sguardi lontani e crucciati dei passanti, le
copertine sbiadite di vecchi libri sulle bancarelle lungo la senna! E’ la
nostra era, l’era dell’uomo cosmopolita, universi di pensieri, speranze,
silenzi che si aggirano frenetici. Non puoi comprendere il tempo in cui vivi se
non comprendi te stesso. Se non senti di essere a casa, se non ne sei
orgoglioso, se non capisci che quella lì non è più la terra di Vercingetorige,
ma la patria di Sartre, di Baudelaire,
di Camus.
Non è importante essere italiano o francese; non è la lingua che ti svela
il segreto di quei luoghi e se cammini con gli occhi sgranati per catturare
luci e immagini, lei, Parigi, continuerà a sfuggirti perché il suo segreto è
dentro te. L’ho compreso un pomeriggio di due anni fa nelle sale del Louvre. Il
primo intento era di raggiungere la Gioconda. Dovevo farmi largo in un oceano
di teste fra gente che si attardava innanzi alla balaustra con l’unico scopo di
scattare foto ricordo: qualcosa da portare agli amici per far vedere che sei
arrivato a pochi metri dal quadro più famoso al mondo! Impresa ardua osservare
le trasparenze del paesaggio le velature luminose che hanno reso famoso l’incarnato di monna
Lisa e il suo sorriso impalpabile; la gente divora i luoghi dove sono custoditi
i silenzi dei geni. Ho rinunciato,
scientemente. Mi sono aggirato per altre sale; ho visto Tiziano, David,
Delacroix finché fra le tele dell’ottocento nella sala 77, quasi vuota, ho
incontrato il segreto che cercavo. Il senso di Parigi, il mistero dell’uomo
moderno mi si è parato innanzi all’improvviso.
Si tratta di un quadro largo poco più di sette metri e alto quasi
cinque; si chiama ‘La zattera della Medusa’ ed è stato dipinto da un pittore
romantico dal nome tipicamente francese: Théodore Gericault. Lo conoscevo per
averlo studiato in una delle tante pubblicazioni d’arte accumulate in questi
anni. Ma di certo non esiste
riproduzione che possa anche solo in parte trasferire l’emozione di trovarselo
di fronte; forte, maestoso, drammatico e al contempo pieno di vita e speranza.
La zattera è l’equivalente delle scialuppe di salvataggio così care alla
cinematografia dopo il naufragio più famoso dell’era moderna: quello del
Titanic. La Medusa era appunto una specie di Titanic ‘ante litteram’, una
fregata francese che il 2 Luglio del 1816, cioè l’anno successivo all’uscita
dalla scena europea di Napoleone, si incagliò su un banco di sabbia a largo
delle coste della Mauritania. Successe per lo stesso motivo per cui il Titanic
fracassò il proprio scafo su un iceberg nel Nord dell’Atlantico: la velocità.
Allora come un secolo dopo tutti gli elementi della tragedia si ripresentarono
uguali; interessi economici, incompetenza, negligenza, odio di classe, sfortuna
, scandalo. E Gericault come un sapiente regista raccolse indizi, interrogò
testimoni, prese appunti, elaborò schizzi preparatori, fece sopralluoghi fino a
spingersi a sfidare i venti della Manica solo per studiare il moto delle onde.
Il risultato fu un capolavoro; non un’opera cinematografica ma ‘La zattera’, un
modo rivoluzionario di intendere la pittura in relazione allo spirito del mondo
a lui contemporaneo. La grandezza naturale dei corpi; la loro nudità; la scelta
sapiente dell’inquadratura quasi che l’autore stesso fosse lì con una
telecamera seduto in mezzo alle onde a riprendere la scena; il contrasto fra
gesti di abbandono e di terrore, di speranza e di rassegnazione segnano con
questi 35 metri quadri di superficie pittorica il culmine dell’ introspezione
moderna nell’arte figurativa. C’è persino la didascalia, come in un film muto
ai primi del ‘900. E’ scritta su una targhetta della cornice: l’unico eroe in
questa toccante storia è l’umanità.
I resoconti dell’epoca raccontano di un naufragio drammatico. Storie di
disperazione, fame, cannibalismo persino. I critici si affannarono a vedere nel
quadro e nei suoi schizzi preparatori le stesse scene che la fantasia
apocalittica dei cronisti aveva creato. Ma osserviamo il quadro (fig.1).
Fig 1
Le figure ricordano quelle che
Michelangelo dipinse nel Giudizio Universale della Cappella Sistina e che pure
Gericault vide e commentò. Sono corpi
seminudi quelli di Gericault, sono anime ignude
quelle di Michelangelo. Mettetele a confronto osservando anche le
immagini di coloro che sono in attesa del giudizio( fig.2 ).
Fig 2
I corpi dipinti da Michelangelo sono nudi perché non sono più corpi,
sono anime davanti al giudizio di Dio. Tutto ruota intorno al Cristo che
solleva il braccio nella parte alta della scena. In quel braccio è il giudizio:
gli sguardi e i gesti di queste anime sembrano
tutte dipendere da lui. Nessuna agisce veramente. E non c’è azione perché non
c’è più un vero spazio né un tempo, non c’è azione perché tutte le azioni sono
state compiute e nulla dipende più da costoro. Simulacri sono piuttosto che
corpi, anime dalle quali è evaporata via la vita terrena insieme al suo libero
arbitrio; immagini di uomini e donne senza più identità; semplici emanazioni
del loro stesso passato. E se le osservi non ti commuovi; puoi restare incantato dalla maestosità della scena,
abbagliato dalla luce, puoi ammirare la perfezione delle anatomie, puoi farti
persino intimorire da un dubbio sottile, come se davvero in un futuro fuori dal
tempo, fuori da come tu stesso concepisci il tempo, tutto questo possa
avverarsi e la tua anima possa davvero attendere un giudizio divino appollaiata
su una nuvola; ma niente di ciò che osservi in silenzio nella cappella Sistina
ti emoziona davvero perché niente ti appartiene.
E invece sulla zattera ci sei, con il cuore. Sei dentro uno spazio che
le dimensioni del quadro e il potente scorcio prospettico ti fanno sembrare reale,
come se fossi trascinato dentro la scena. Questi corpi non sono simulacri, sono
corpi veri; non sono spogliati della loro vita terrena; sono solo uomini
innanzi alla morte. E le azioni hanno una logica perché sono molto più che
azioni, sono istinti, emozioni, pensieri immortalati nell’istante in cui non conta più niente altro che sopravvivere.
Solo in basso a sinistra un tizio con i capelli e la barba grigia sembra
l’immagine della rassegnazione. Il corpo del giovane che trattiene con il
braccio destro perché non scivoli via nei flutti è forse il corpo del figlio. Di
certo è così perché solo un dolore simile può vincere l’istinto di
sopravvivenza. Appena dietro lui invece la composizione si anima con una tensione
estrema. Le braccia e le bisettrici degli sguardi e i corpi arrampicati uno
sull’altro disegnano nello spazio una
piramide sorretta dalla speranza. Lo straccio rosso è sventolato per farsi
individuare da una imbarcazione che qualcuno ha visto lontano, oltre le onde,
dove c’è la salvezza.
E' sempre così: il contatto improvviso con la morte dà valore alla vita.
Quando ti ritrovi nei pochi metri quadri
di una zattera, e il futuro non è più scontato e la paura si fa terrore l’uomo
vero emerge, e l’uomo può essere un eroe o una bestia. Puoi trovare di tutto su
una zattera. Chi è capace di strappare a brandelli le carni di un compagno per
non morire di fame, oppure, il che è lo stesso, chi sgomita davanti alle imbarcazioni
di salvataggio sui ponti delle nostre navi da crociera che affondano camminando
su donne e bambini pur di assicurarsi un posto sulla scialuppa. Puoi trovare
chi perde tutto ciò per cui si batteva e non gli importa morire o.. chi torna
in cabina per salvare i propri gioielli; chi si lascia morire paralizzato dalla
paura e chi si sacrifica per salvare uno sconosciuto. La zattera è lo spazio
dell’anima. E’ il simbolo di tutto ciò che si trova al confine estremo di
ciascuno di noi. Sei nudo lì, sei in uno spazio virtuale, ben oltre la
normalità, dove eroismo o abiezione, amore o odio, razza, credo, tradizioni,
ricchezza, potere, calcolo sembrano parole senza senso. La zattera è insieme inferno e paradiso
e se credi di esserti spinto sino di fronte a Dio non è perché sei in un luogo
d’arte ma perché in un attimo, grazie a quell’arte, sei rimasto solo di fronte a
te stesso.
Poi esci ovviamente; dalle stanze del Louvre, dalla piramide di
cristallo; ti incammini per i giardini delle Tuileries; ti siedi su una
panchina di fronte a una fontana con un gelato in mano. Sollevi gli occhi e osservi
le nuvole coprire il cielo della mattina. Settembre è così a Parigi. Giungeranno le
quattro o forse anche le cinque del pomeriggio prima che venga giù il solito acquazzone
continentale.
Enrico Coluccia
venerdì 17 agosto 2012
"Per sempre". Dalla raccolta 'appunti di viaggio'.
Bari, 15 /08/2012
Cari amici, il Trentino è una terra incantevole! Avevo il desiderio di tornarci dopo quasi trentacinque anni e l’ho trovata come la ricordavo, come se lei.. mi avesse aspettato. E come allora, ai miei vent’anni, ho avuto la sensazione che in quei luoghi la natura abbia perdonato l’uomo per il suo insediamento. Noi italiani siamo gente davvero strana! Amiamo le bellezze degli altri e snobbiamo le nostre. L’anno scorso ho avuto modo di visitare i decantati giardini di Gaudì alle porte di Barcellona; quest’anno ho passeggiato sulle rive del fiume che attraversa Merano. Mi sono inoltrato nei giardini dedicati alla memoria della principessa Sissi. Se non lo avete mai fatto, fatelo. Se volete visitare i giardini di Gaudì fate anche questo, per carità!, ma poi andate a Merano: è un trionfo di colori, odori, suoni, luccichii. Non vi è niente di costruito, niente di artificiale, compresa la bimba che si arrampica tenace sulle gambe della principessa di pietra all’ingresso e aspetta in posa la foto della madre mentre con gli occhi sembra dire: io sono la principessa vera. Ho camminato a lungo in quell’incanto con l’idea bislacca che qualunque cosa avessi desiderato lì avrebbe trovato l’energia per avverarsi, da sola. Mi sono seduto sulle panchine di legno nella via del belvedere; su ognuna sono intagliate a lama di coltello delle frasi. Non i soliti murales apocalittici che imbrattano i muri delle nostre città né quelle frasi piene di cuori infrecciati del tipo “ Antonio ama Laura per sempre”. No! Erano frasi di poeti celebri che scritte apposta lì, in mezzo a tanta bellezza, colmavano l’animo molto più in fretta che dal fondo di una pagina di libro sfogliato distrattamente in libreria in attesa che il caldo di questa città assurda si stemperi nella sera. Ho letto una frase di Alda Merini e ne sono rimasto incantato:
Quando si ha in noi il ricordo del passato e l’ansia del futuro, Cristo, la morte beve da noi l’eterno!
Non poteva che essere una donna; dette dalle donne le verità luccicano come diamanti. Attenzione però, queste parole vanno intese nel loro senso più profondo. A restare in superficie si rischia di cadere in interpretazioni banali; qualcosa del tipo.. bisogna vivere il presente, il qui e ora, lasciare il passato alle spalle.. il futuro ancora non c’è, vivi l’oggi, e simili amenità. Ve li ricordate no? quei pendoli a obelisco di moda negli anni ’60 con l’ammonizione sul quadrante, ‘Tempus fugit’, ovvero “Il tempo fugge” e quindi, sottinteso, cogli l’attimo fuggente. I nostri genitori lo citavano come simbolo della caducità delle cose, come se lo scorrere del tempo rendesse il nostro passato qualcosa di indegno e morto. Come se il passato non fosse tutto ciò che siamo e come se il futuro non avesse già di per sé l’insana abitudine di presentarsi ogni giorno pieno di dubbi e paure!
Come può un essere umano liberarsi del passato? Semplice: non può, e non deve! Il passato è memoria; solo la memoria dà senso, dà forza, dà coraggio per affrontare le vicende del quotidiano. Non bisogna confondere il ricordo con la memoria. Non sono la stessa cosa. La memoria è un passato purificato, un passato che ci ha già reso migliori, consapevoli della propria interiorità, delle proprie radici, della propria reattività al mondo e ogni giorno che passa la arricchisce facendone un tesoro di esperienza.
Interiorità è memoria (..) è rivisitazione e riappropriazione orgogliosa del tempo trascorso, nondimeno di quello sprecato, sbagliato, sofferto. (1)
Ed invece il ricordo è rimuginare, subire il passato per non subire il presente come fa Francesca, nel V canto dell’Inferno, quando racconta a Dante gli attimi più importanti della sua vita.
.. Nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice nella miseria..
E’ facile rimuginare; è un po’ come sbattere la porta in faccia al mondo e rinchiudersi in uno spazio atemporale, dove tutto è già accaduto e dove puoi solo raccontare. E raccontando esperisci emozioni negative: magari rimpianto, o rabbia, oppure orgoglio, presunzione. Eccola la prima porta attraverso la quale la morte beve la nostra eternità.
La seconda è l’ansia del futuro. Poiché la vita è un continuo moto, un continuo cambiare, un’alternanza di stagioni e di incontri; un rinnovarsi di desideri e passioni, un’insalata di dolori e piaceri, di disillusioni e nuove speranze ecco che vaghiamo in cerca di certezze e non trovandole (perché non sappiamo guardare in noi stessi, e alcuni neanche sospettano che ci sia qualcosa da guardare in noi stessi) nel migliore dei casi ci mettiamo di fronte al futuro con la carrucola piena di cemento e costruiamo qualche diga ideale contro questo flusso caotico. Un esempio? Che ne dite di invenzioni come: ‘le forme cambiano ma la sostanza resta’. Se fosse vero basterebbe conoscere la sostanza di quel che ci accade (un paio di decadi, magari tre) e tutto sarebbe sempre sotto controllo, come una routine qualunque! Purtroppo la sostanza non esiste senza forma. E’ come se un naufrago fosse trascinato da un fiume in piena e dicesse: in fondo questa è solo acqua. L’avete mai saggiata la forza dell’acqua? Non ha forma e al contempo ha tutte le forme possibili e dentro sé è piena di vortici, correnti, rigurgiti; l’acqua rimbalza, precipita, ingoia. Nessuna diga improvvisata potrebbe reggerne l’urto.
E quando sentono l’ansia del futuro crescere alcuni la ingannano con un espediente ingegnoso. Poiché di dighe (leggi convinzioni) ne hanno viste crollare parecchie e si sentono ormai degli esperti in materia, tirano fuori il coniglio dal cilindro e si mettono a cavalcare l’onda. Una specie di equilibrio perenne, sempre alla superficie delle cose. Mentre le cose, ovvero le vicende delle loro esistenze scorrono, loro se ne restano in disparte a osservare. E se neanche questo basta, se nonostante ciò l’ansia torna a fare capolino, l’importante diviene..
.. occupare la mente con esigenze pratiche, utili a qualcun altro e a se stessi, affannate sino alla distruzione di ogni sintomo di autocoscienza disinteressata(…) perché il tempo soli con se stessi fa paura; angoscia e tortura la più parte di questa specie esteriore.(..) Non comprendono che questo tempo non va riempito, va fatto maturare attingendo a se stessi, alla propria memoria.(..) Chi fugge [dalla propria interiorità] si svuota, non fa altro che ingozzarsi di presente. (1)
Questo moto continuo, però, questo continuo “ingozzarsi di presente” ha un prezzo. E anche restare in equilibrio sull’onda ce l’ha. Per liberarsi dal giogo e vivacchiare un po’ tranquilla c’è un altro espediente che la mente sa attuare; è un giochetto sagace chiamato: “per sempre”. Il cuore è ingenuo, fa presto a convincersi. Non può che essere così, per sempre: pur di ingannare l’ansia di quel che mi riserva il futuro io oggi ho bisogno di credere che ti amerò per sempre, che un figlio è per sempre, che una ricchezza sarà mia per sempre, che il mio lavoro di ogni giorno sarà per sempre. Persino quando non abbiamo nulla altro che paura e rancore la mente fa credere al cuore che questo momento sarà per sempre.
Tutti, re e imperatori, uomini per lo più ritenuti saggi, in alcuni casi ispirati dagli dei o da Dio in persona, hanno governato i propri domini come se fosse per sempre. E mai nessuno è riuscito a sopravvivere all’idea che il suo potere un giorno non sarebbe stato più. Basti pensare a Napoleone nell’esilio di S.Elena o a Carlo V, l’uomo sul cui impero non tramontava mai il sole, che quando abdicò e si rinchiuse a Yuste in un monastero arroccato sui monti dell’Estremadura nel cuore della Spagna, non sopravvisse che poco tempo alla propria fine.
Potremmo voler credere che la fama delle gesta compiute o delle battaglie vinte da costoro abbia permesso loro di guadagnarsi l’eternità ingannando la morte. E per quanto ancora?, per il tempo che può durare la nostra civiltà o la vita stessa sulla terra? Quando il sole sarà una gigante rossa, e fra un tempo inimmaginabile di miliardi di anni avrà inghiottito Mercurio, Venere e Terra, che cosa resterà della fama dei nostri condottieri o dei nostri uomini illustri o degli uomini illustri e dei condottieri di altre civiltà che si succederanno sulla terra? In verità già adesso a Carlo V o a Cesare o a Napoleone non può fregare più niente, stesi nelle loro tombe monumentali, che i nostri ragazzi siano costretti a studiarne le gesta sui libri di scuola. Non era quella l’eternità che cercavano. E se mai l’hanno sognata così si illudevano perché non esiste una eternità dopo la morte. L’eternità ha senso solo quando si è in vita, giacché gli attimi di vita presente, quando si ha ancora la forza di amare e combattere per qualcosa, sono l’unico modo che l’eternità ha per esistere.
La vita stessa è eternità, il che non vuol dire che durerà per sempre, vuol dire che contiene in se stessa tutto il tempo possibile e tutto l’amore possibile e tutta la gioia, tutta la forza, tutta la redenzione possibile; e l’uomo ne è il custode. Sta a lui esserne o meno consapevole. Il regno del per sempre invece è un regno infernale. Per convincervene tornate a leggere il V Canto dell’Inferno, voi che oggi siete professionisti o uomini di cultura.
Francesca racconta a Dante di essersi protratta a leggere con il suo amante Paolo il libro che narra la storia di Lancillotto del Lago che si innamorò della principessa Ginevra moglie di Artù. E’ questo il libro Galeotto che scatena la passione fra Paolo e Francesca. Il bacio fra i due amanti è proprio l’attimo in cui le loro vite si spezzano per mano del marito offeso, Gianciotto Malatesta. Dante che ascolta questa storia, sopraffatto dalla commozione, sviene.
Mentre che l’uno spirto questo disse,
l’altro piangea, sì che di pietade
io venni men così com’io morisse;
e caddi come corpo morto cade.
Si sono chiesti a lungo i commentatori e penso un po’ tutti noi studenti di un tempo, come fosse possibile che un uomo come Dante avvezzo alle più dure lotte politiche fosse sopraffatto a tal punto dalla commozione per le lacrime di un amante da svenire. Natalino Sapegno, indimenticato commentatore della Divina Commedia (2) spiega che la pietade è la tristezza che nasceva dal contemplare quella infelicità senza scampo. E’ vero: Dante sviene perché il pianto di Paolo è un pianto per sempre. Un dolore senza consolazione è un dolore fuori dalla vita perché la vita è cambiamento ed è anche consapevolezza del cambiamento; il che significa speranza. E in quello spazio del cuore dove c’è speranza la morte non ha ancora bevuto del tutto da noi eternità.
Enrico Coluccia
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