
venerdì 28 settembre 2012
sabato 8 settembre 2012
La zattera. (Da Appunti di viaggio.)
Dalla raccolta ‘Appunti di ‘viaggio’ per
Zibaldone 2000
La zattera
Qualche anno fa ho esaudito il
desiderio di tutti coloro che vanno a Parigi per la prima volta: ci sono
ritornato. Ovviamente in compagnia di una donna. Parigi e le donne sono come poli
magnetici di segno opposto: si attraggono. Roma potrà anche essere una buona
complice del fascino femminile, potrà ‘non fare la stupida’, regalarti
atmosfere col ‘frisceco de luna’ ma Parigi è l’abito naturale di qualunque
donna. Ce la puoi portare per la prima volta, che sia amante, sorella, o figlia, poco importa.
Non appena scende dall’aereo con gli occhi si gira intorno e sembra dire:
questo è il mio ambiente naturale, qui io sono nata. Ti può far fare ciò che
vuole. Non le serve chiedere. L’ambiente senza parole ti fa prendere e donare
tutto quel che puoi come se fossimo sotto un albero nel giardino dell’Eden e
bastasse raccogliere una mela per renderla felice.
E’ una città da
incanto Parigi. Anni addietro quando ci sono arrivato per la prima volta ho
creduto che la si potesse visitare come qualsiasi altra città. Mi sono immerso
di sera nei vicoli del quartiere latino, fra le strade intorno al Pantheon, mi
sono seduto ai tavolini negli angoli dei boulevard, ho passeggiato sotto gli
alberi nei giardini dei Campi Elisi, ho percorso e ripercorso infinite volte il
metrò dalla zona di Chàtelet e Les Halles fino al centro; l’ho spiata, da tutte
le angolazioni possibili: dalle scalinate di Mont Martre, dal battello in
navigazione sotto i ponti sulla senna, persino dalla cima della torre Eiffel di
sera quando sembra un cielo steso sotto i tuoi occhi e le sue luci brillano
come stelle di mondi lontani, inarrivabili.
Mi ha affascinato ma non c’è stato un istante in cui abbia avuto la
sensazione di averne carpito il segreto. Per questo ti reimbarchi sul volo di
ritorno col desiderio struggente di tornarci. E se lo fai, se ci torni e non
cambi strategia, il processo si ripete inesorabile. La gente del luogo ti
guarda diffidente e continui ad aggirarti per le strade come uno straniero.
Ma allora, cosa
spiega il fascino di questa città? Non c’è risposta ovviamente. Il fascino non
ha nulla di razionale. Da quanti l’hanno conosciuta e amata ci viene forse un
solo consiglio: vivetela con atteggiamento da uomini, e non da maschi. Non la
si può ‘possedere’. Esattamente come accade per una donna di valore. Il maschio
può credere di possedere una donna con la forza del proprio corpo; ma un uomo
sa che nessuna donna può essere conquistata, né posseduta; al massimo ci si può
vivere accanto per del tempo, anche una vita, condividendo un letto, dei figli,
pensieri, progetti, ma senza pretendere che sia completamente tua né di averla
compresa appieno, mai. Il maschio invece quando possiede urla, agisce, cerca,
crede di trovare, di vedere, di capire, e se non si accontenta sbrana la
propria preda, la smonta pezzo dopo pezzo come fanno i bambini con i giocattoli
alla ricerca del congegno misterioso che
spieghi il suo fascino. E un giocattolo rotto non ha più alcun fascino.
Per Parigi è un po’
la stessa cosa. Se potessimo racchiuderla in una metafora potremmo pensare a
lei come a una città femminile e invece a Roma come a una città maschile. Non
sono i dialetti e nemmeno i monumenti che hanno sesso, sono le atmosfere. Roma
è un tuffo in un tempo lontano, un tempo che ormai non ci appartiene; un tempo
che puoi solo immaginare, ricostruire, studiare. Parigi è il tuo mondo, è il
mondo dell’uomo moderno, con la sua interiorità, con il sentimento di un
proprio sé ineludibile che ti fa appartenere a te stesso e a nient’altro.
Parigi è moderna,
Roma è rimasta antica e nessun quartiere moderno è riuscito mai a farne a pieno
una città dei giorni nostri. Sembra che i resti dei monumenti di cui è piena in
ogni angolo siano offesi, feriti quasi dalla nostra presenza. Le auto
sfrecciano tra quelle rovine con violenza inaudita. Puoi illuminare il Colosseo
con giochi di luce, addobbarlo per le cerimonie e ancor più sembrerà lo spettro
di un mondo perduto, per sempre. Fateci caso quando vi capita di passeggiare,
ad esempio, per via dei fori imperiali.
Appoggiatevi alla ringhiera, guardate giù e fate volare la
fantasia. Fra i resti di quelle colonne,
magari proprio lì dove i secoli hanno fatto crescere erba e terra e asfalto si
aggiravano più di duemila anni fa gli uomini della civis. Uomini affatto diversi da noi. Non è un caso che in latino le parole città e civiltà abbiano la
stessa radice. Per i romani civis e civitas erano la stessa cosa.
La città [di Roma] non è soltanto un regime politico, la
città è una cultura … [Qui] la dimensione morale dell’uomo è indivisibile dalla
sua dimensione politica; egli non può realizzarsi interamente che all’interno e per
mezzo delle istituzioni civili … Roma ignora
l’interiorità psicologica e l’esame di coscienza; l’uomo romano non è che
esteriorità e non possiede altro specchio che i suoi simili per vedersi
nell’onore o..nell’indegnità. (1)
E’ lontano da noi questo mondo e il suo fascino è proprio in questa
diversità. Ciò che appare diverso se non ci fa paura ci fa innamorare e se ti
innamori di Roma inizi a desiderarla con avidità maschile. Vuoi saper tutto
della sua storia e ti aggiri per le sue strade come farebbe un archeologo in
erba che studia le vestigia di genti antiche e scatta foto, legge epigrafi in
latino, compra libri, scruta mappe, immagina cose, abitudini, scene sepolte dal
tempo. Facciamo questo con avidità come
se i secoli trascorsi fra le nostre strade e quei monumenti non fossero mai
esistiti, come se la chiesa non se ne
fosse mai impadronita e da capitale dell’impero non ne avesse fatto la capitale
della cristianità. Tutti sappiamo che la chiesa ha cancellato questo mondo per
sempre, ha sostituito la civitas con
la pietas, i templi con le
cattedrali, e ha insinuato per secoli nelle coscienze italiane il timore che
vivere fuori dalla pietas cristiana significhi vivere nell’indegnità.
Parigi è altra cosa. Parigi è un
utero per l’uomo moderno. Vicina al nostro modo di sentire la vita. E’ noi
stessi per come siamo oggi, anche se non abbiamo più le parrucche dei tempi di
Robespierre, anche se non crediamo più che un re possa avere un potere divino,
anche se non geliamo al freddo di una soffitta da bohemien. Parigi, il sapore
dolciastro dei bistrot, gli sguardi lontani e crucciati dei passanti, le
copertine sbiadite di vecchi libri sulle bancarelle lungo la senna! E’ la
nostra era, l’era dell’uomo cosmopolita, universi di pensieri, speranze,
silenzi che si aggirano frenetici. Non puoi comprendere il tempo in cui vivi se
non comprendi te stesso. Se non senti di essere a casa, se non ne sei
orgoglioso, se non capisci che quella lì non è più la terra di Vercingetorige,
ma la patria di Sartre, di Baudelaire,
di Camus.
Non è importante essere italiano o francese; non è la lingua che ti svela
il segreto di quei luoghi e se cammini con gli occhi sgranati per catturare
luci e immagini, lei, Parigi, continuerà a sfuggirti perché il suo segreto è
dentro te. L’ho compreso un pomeriggio di due anni fa nelle sale del Louvre. Il
primo intento era di raggiungere la Gioconda. Dovevo farmi largo in un oceano
di teste fra gente che si attardava innanzi alla balaustra con l’unico scopo di
scattare foto ricordo: qualcosa da portare agli amici per far vedere che sei
arrivato a pochi metri dal quadro più famoso al mondo! Impresa ardua osservare
le trasparenze del paesaggio le velature luminose che hanno reso famoso l’incarnato di monna
Lisa e il suo sorriso impalpabile; la gente divora i luoghi dove sono custoditi
i silenzi dei geni. Ho rinunciato,
scientemente. Mi sono aggirato per altre sale; ho visto Tiziano, David,
Delacroix finché fra le tele dell’ottocento nella sala 77, quasi vuota, ho
incontrato il segreto che cercavo. Il senso di Parigi, il mistero dell’uomo
moderno mi si è parato innanzi all’improvviso.
Si tratta di un quadro largo poco più di sette metri e alto quasi
cinque; si chiama ‘La zattera della Medusa’ ed è stato dipinto da un pittore
romantico dal nome tipicamente francese: Théodore Gericault. Lo conoscevo per
averlo studiato in una delle tante pubblicazioni d’arte accumulate in questi
anni. Ma di certo non esiste
riproduzione che possa anche solo in parte trasferire l’emozione di trovarselo
di fronte; forte, maestoso, drammatico e al contempo pieno di vita e speranza.
La zattera è l’equivalente delle scialuppe di salvataggio così care alla
cinematografia dopo il naufragio più famoso dell’era moderna: quello del
Titanic. La Medusa era appunto una specie di Titanic ‘ante litteram’, una
fregata francese che il 2 Luglio del 1816, cioè l’anno successivo all’uscita
dalla scena europea di Napoleone, si incagliò su un banco di sabbia a largo
delle coste della Mauritania. Successe per lo stesso motivo per cui il Titanic
fracassò il proprio scafo su un iceberg nel Nord dell’Atlantico: la velocità.
Allora come un secolo dopo tutti gli elementi della tragedia si ripresentarono
uguali; interessi economici, incompetenza, negligenza, odio di classe, sfortuna
, scandalo. E Gericault come un sapiente regista raccolse indizi, interrogò
testimoni, prese appunti, elaborò schizzi preparatori, fece sopralluoghi fino a
spingersi a sfidare i venti della Manica solo per studiare il moto delle onde.
Il risultato fu un capolavoro; non un’opera cinematografica ma ‘La zattera’, un
modo rivoluzionario di intendere la pittura in relazione allo spirito del mondo
a lui contemporaneo. La grandezza naturale dei corpi; la loro nudità; la scelta
sapiente dell’inquadratura quasi che l’autore stesso fosse lì con una
telecamera seduto in mezzo alle onde a riprendere la scena; il contrasto fra
gesti di abbandono e di terrore, di speranza e di rassegnazione segnano con
questi 35 metri quadri di superficie pittorica il culmine dell’ introspezione
moderna nell’arte figurativa. C’è persino la didascalia, come in un film muto
ai primi del ‘900. E’ scritta su una targhetta della cornice: l’unico eroe in
questa toccante storia è l’umanità.
I resoconti dell’epoca raccontano di un naufragio drammatico. Storie di
disperazione, fame, cannibalismo persino. I critici si affannarono a vedere nel
quadro e nei suoi schizzi preparatori le stesse scene che la fantasia
apocalittica dei cronisti aveva creato. Ma osserviamo il quadro (fig.1).
Fig 1
Le figure ricordano quelle che
Michelangelo dipinse nel Giudizio Universale della Cappella Sistina e che pure
Gericault vide e commentò. Sono corpi
seminudi quelli di Gericault, sono anime ignude
quelle di Michelangelo. Mettetele a confronto osservando anche le
immagini di coloro che sono in attesa del giudizio( fig.2 ).
Fig 2
I corpi dipinti da Michelangelo sono nudi perché non sono più corpi,
sono anime davanti al giudizio di Dio. Tutto ruota intorno al Cristo che
solleva il braccio nella parte alta della scena. In quel braccio è il giudizio:
gli sguardi e i gesti di queste anime sembrano
tutte dipendere da lui. Nessuna agisce veramente. E non c’è azione perché non
c’è più un vero spazio né un tempo, non c’è azione perché tutte le azioni sono
state compiute e nulla dipende più da costoro. Simulacri sono piuttosto che
corpi, anime dalle quali è evaporata via la vita terrena insieme al suo libero
arbitrio; immagini di uomini e donne senza più identità; semplici emanazioni
del loro stesso passato. E se le osservi non ti commuovi; puoi restare incantato dalla maestosità della scena,
abbagliato dalla luce, puoi ammirare la perfezione delle anatomie, puoi farti
persino intimorire da un dubbio sottile, come se davvero in un futuro fuori dal
tempo, fuori da come tu stesso concepisci il tempo, tutto questo possa
avverarsi e la tua anima possa davvero attendere un giudizio divino appollaiata
su una nuvola; ma niente di ciò che osservi in silenzio nella cappella Sistina
ti emoziona davvero perché niente ti appartiene.
E invece sulla zattera ci sei, con il cuore. Sei dentro uno spazio che
le dimensioni del quadro e il potente scorcio prospettico ti fanno sembrare reale,
come se fossi trascinato dentro la scena. Questi corpi non sono simulacri, sono
corpi veri; non sono spogliati della loro vita terrena; sono solo uomini
innanzi alla morte. E le azioni hanno una logica perché sono molto più che
azioni, sono istinti, emozioni, pensieri immortalati nell’istante in cui non conta più niente altro che sopravvivere.
Solo in basso a sinistra un tizio con i capelli e la barba grigia sembra
l’immagine della rassegnazione. Il corpo del giovane che trattiene con il
braccio destro perché non scivoli via nei flutti è forse il corpo del figlio. Di
certo è così perché solo un dolore simile può vincere l’istinto di
sopravvivenza. Appena dietro lui invece la composizione si anima con una tensione
estrema. Le braccia e le bisettrici degli sguardi e i corpi arrampicati uno
sull’altro disegnano nello spazio una
piramide sorretta dalla speranza. Lo straccio rosso è sventolato per farsi
individuare da una imbarcazione che qualcuno ha visto lontano, oltre le onde,
dove c’è la salvezza.
E' sempre così: il contatto improvviso con la morte dà valore alla vita.
Quando ti ritrovi nei pochi metri quadri
di una zattera, e il futuro non è più scontato e la paura si fa terrore l’uomo
vero emerge, e l’uomo può essere un eroe o una bestia. Puoi trovare di tutto su
una zattera. Chi è capace di strappare a brandelli le carni di un compagno per
non morire di fame, oppure, il che è lo stesso, chi sgomita davanti alle imbarcazioni
di salvataggio sui ponti delle nostre navi da crociera che affondano camminando
su donne e bambini pur di assicurarsi un posto sulla scialuppa. Puoi trovare
chi perde tutto ciò per cui si batteva e non gli importa morire o.. chi torna
in cabina per salvare i propri gioielli; chi si lascia morire paralizzato dalla
paura e chi si sacrifica per salvare uno sconosciuto. La zattera è lo spazio
dell’anima. E’ il simbolo di tutto ciò che si trova al confine estremo di
ciascuno di noi. Sei nudo lì, sei in uno spazio virtuale, ben oltre la
normalità, dove eroismo o abiezione, amore o odio, razza, credo, tradizioni,
ricchezza, potere, calcolo sembrano parole senza senso. La zattera è insieme inferno e paradiso
e se credi di esserti spinto sino di fronte a Dio non è perché sei in un luogo
d’arte ma perché in un attimo, grazie a quell’arte, sei rimasto solo di fronte a
te stesso.
Poi esci ovviamente; dalle stanze del Louvre, dalla piramide di
cristallo; ti incammini per i giardini delle Tuileries; ti siedi su una
panchina di fronte a una fontana con un gelato in mano. Sollevi gli occhi e osservi
le nuvole coprire il cielo della mattina. Settembre è così a Parigi. Giungeranno le
quattro o forse anche le cinque del pomeriggio prima che venga giù il solito acquazzone
continentale.
Enrico Coluccia
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